Cooperazione

Le comunità verticali del credito cooperativo

30 Novembre 2018

Cosa serve alle comunità oggi? Di quali risorse devono dotarsi in una fase storica dove la vita in comune sa più di ritorno al passato che di nuovo approdo? A livello generale le risposte sono abbastanza chiare: serve maggiore apertura rispetto ai contesti e più capacità connettiva perché come ricordava Arnaldo Bagnasco su La Lettura di qualche settimana fa “la chiusura è la malattia dei sistemi locali (…) per questo non dobbiamo ingessare i flussi che aiutano i territori ad adattarsi ai cambiamenti esterni, al mondo che muta”. Ma attraverso quali meccanismi si può fare comunità alimentandosi a fattori esogeni e non solo facendo il classico bricolage di risorse interne?

Le risposte individuate in questi ultimi anni si focalizzano sul rendere più efficace il legame sociale sapendo di poter contare meno che in passato sul collante delle matrici politico culturali. Ecco quindi diffondersi strumenti, come le tecniche di service design collaborativo o i patti tra cittadini attivi e pubblica amministrazione per fare empowerment di capacità progettuali e gestionali diffuse, rafforzando e insieme dilatando la relazionalità. E’ quello che si potrebbe definire effetto piattaforma: la capacità di utilizzare una risorsa (asset) abilitando gli apporti di una pluralità di attori. Ma questa modalità, pur importante, non sembra bastare, anzi potrebbe mettere in crisi i tessuti comunitari nella misura in cui aumenta la pressione dei legami esterni. Il caso del turismo intermediato da piattaforme digitali è emblematico in tal senso: per quanto caratterizzato da dimensioni di socialità e di sostenibilità ambientale il rischio è di sollecitare eccessivamente la capacità di assorbimento delle comunità naturali in termini di impatto sulle economie e sui tessuti di relazione.

Lunghezze difficili sulla via Schmidt, Parete Nord del Cervino. Foto archivio Cosi

Ecco quindi che la comunità come costruzione artificiale è legata anche alla identificazione e alla gestione di meccanismi di integrazione verticale capaci di interloquire con le economie e le politiche dei flussi extralocali. Sono meccanismi diversi sia nella configurazione che negli esiti, ma che sono accomunati dal farsi carico di una sorta di tabù delle comunità ovvero introdurre elementi produzione del valore e di governance che non solo sono esterni al perimetro del locale, ma spesso contengono elementi organizzativi quasi innaturali rispetto al calore del legame comunitario come la gerarchia, la formalità delle relazioni, la prevalenza della tecnica.

Alcuni esempi presi dall’attualità possono aiutare a comprendere quale rilevanza rivestano i meccanismi di integrazione verticale delle comunità. Una fenomenologia ben conosciuta è quella delle multinazionali tascabili che incorporano la dimensione globale in catene di produzione locali alimentando, in alcuni casi, distretti di economia coesiva. Altro caso di è quello di realtà come fondazione housing sociale che si strutturano verticalmente intorno a modelli di servizio che contribuiscono a ridefinire comportamenti sociali bottom up e risorse finanziarie top down. Ma è la finanza di territorio a costituire la vera “buona pratica”. L’implementazione della riforma normativa obbliga infatti banche di credito cooperativo e casse rurali a costituirsi in gruppi bancari nazionali dotati di asset e competenze in grado di operare come operatori della finanza globale. Questa integrazione sta producendo un profondo rimescolamento dei fattori costitutivi e gestionali di queste imprese di comunità perché a fronte del rischio di limitare la loro autonomia consente però di contrastare la deriva verso modelli di business incentrati sulla sola “finanza dal basso” e su modelli di crescita a corto raggio basati sulla sola prossimità territoriale generando economie di scala poco significative.

In sintesi la miglior dotazione di una comunità oggi consiste in un duplice meccanismo: piattaforma abilitante e integrazione verticale. Un mix che sollecita non solo gli elementi di gerarchia e di scambio di mercato ma anche i modelli di rete su base cooperativa. In tutti i casi citati, e probabilmente in altri, la regolazione e la gestione non è demandabile in via esclusiva a schemi di relazione tra pari guardando sia alle quote di potere che alla natura dei bisogni da soddisfare e delle risorse da apportare. Ed è per questo che il carattere ibrido delle soluzioni non rappresenta più l’eccezione ma la regola del community making e del design organizzativo.

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