Cooperazione
Le associazioni di rappresentanza nell’era della turbopolitica
Dalla tutela degli “interessi” alla promozione delle “opportunità”
L’onda lunga e robusta della crisi socio-culturale che sta tenendo in apnea il nostro Paese ha investito, naturalmente, anche il tessuto delle associazioni di rappresentanza.
Provo ad articolare qualche semplice concetto partendo dalla mia esperienza di dirigente di Confcooperative (nello specifico del settore delle cooperative di abitanti), cercando di mettere in fila sia alcuni dati di criticità che emergono oggi con piu vigore, sia alcune strade che si sono intraprese o si potrebbero intraprendere per riportare la rappresentanza — dal mio punto di vista — a essere non solo un “intermediario economico-sociale” ma un soggetto proattivo di crescita civile.
In questi anni di complessivo deterioramento della vita pubblica (e quindi della politica), il tessuto delle associazioni è parso resistere più a lungo in termini di credibilità collettiva; questo perché probabilmente l’ossatura burocratico-organizzativa di tali realtà, meno esposte alle volubili folate del consenso ma incardinate su un tutto sommato virtuoso processo di cooptazione, le aveva fatte resistere come strutture “solide” in un contesto liquefatto.
Tale posizione di relativa robustezza ha portato sicuramente a un rafforzamento del ruolo e della credibilità di molte associazioni ma, sul lungo periodo, ha determinato una sclerotizzazione delle stesse che — con il perdurare della crisi — si sono trovate in molti casi nude di fronte a una autoreferenzialità burocratizzata, precipitando spesso anch’esse tra quei soggetti visti dall’opinione pubblica come poco credibili e co-protagonisti del declino italiano.
Se dovessi individuare uno dei tratti principali che hanno impoverito di senso e credibilità i cosiddetti “corpi intermedi” direi che — parlando di realtà a me note — si è troppe volte interpretato l’importante ruolo, riconosciuto dalla prassi e dalla Costituzione alle associazioni, come un mero ruolo di “scambiatore di potere” e non come sollecitatore di problemi, criticità, buone prassi e soluzioni.
Questa sclerotizzazione, alla fine, ha portato talvolta a vedere in molte realtà periferiche gli stessi deficit ascritti alla politica: gestioni verticistiche o, peggio, in taluni casi padronali; fastidio verso le problematiche della base; piegatura degli interessi generali di rappresentanza a interessi particolari; svuotamento delle competenze nella rappresentanza per mancanza di pratica operativa e altro ancora. Non cito qui le mostruose degenerazioni messe in luce dalle recenti inchieste romane — per la quale mi pare doveroso esprimere gratitudine all’importante lavoro della Magistratura inquirente — poiché lì la sfera è quella nitida del crimine e non del deterioramento di una qualità.
Trovandoci di fronte a tale mutamento, il percorso che si e avviato ormai da tre anni nelle associazioni di rappresentanza cooperativa, ha portato a tracciare le linee per costituire l’“Alleanza delle Cooperative Italiane”, ossia a delineare un vero processo costituente che da tre organizzazioni porti ad averne una sola. Un percorso di razionalizzazione e semplificazione di una significative parte di rappresentanza che proietti tale funzione in una prospettiva più in linea con i tempi.
Su tale processo non mi soffermo, dicendo solo che il lavoro intrapreso è difficile, complesso, faticoso e procede con il giusto passo, per qualcuno forse lento, ma calibrato su un mutamento che vuole essere duraturo.
E chiaro però che sono convinto (e mi immagino che questa sia convinzione anche dei vertici stessi delle nostre organizzazioni) che non basta una modifica — seppur radicale — organizzativa; non basta la razionalizzazione delle strutture; non bastano processi che fondono identità culturali e imprenditoriali differenti: serve anche una diversa presenza sulla scena sociale, che non si limiti più solo a “rappresentare interessi” ma si proponga soprattutto di “rappresentare opportunità”.
Cosa intendo con cio? Intendo dire che se si continua a pensare il ruolo di rappresentanti associativi che hanno come primo obiettivo quello esclusivo di fare il mero “interesse” delle proprie associate, alla fine si buca su due fronti: non si fa il bene delle associate e non si fa il bene della società in cui le associate operano. In buona sostanza ritengo che l’attività di rappresentanza e di confronto con i livelli istitituzionali preposti a legiferare deve essere basata su un solido portato di esperienza (e quindi di “cose fatte” da un lato) e di visioni innovative dall’altro, così da generare — in una dinamica reciproca tra politica e associazione — fiducia, trasparenza relazionale, consenso duraturo e non partigiano e, soprattutto, sviluppo di opportunità e di benessere collettivo.
In tale processo, dunque, gli aspetti che dovrebbero prevalere in una moderna associazione di rappresentanza, in questo caso cooperativa, sono la conoscenza approfondita della materia che si tratta, il presidio valoriale che deve essere sotteso all’agire imprenditoriale di una cooperativa, la formazione continua dei gruppi dirigenti e l’individuazione/valorizzazione continua delle migliori esperienze concrete leggibili nelle associazioni, cosi da portarle a modelli esemplificativi sia per le associate, sia per le istituzioni.
Tutta la fondamentale parte delle trattative minute su norme, codici, regolamenti e finanziamenti – a mio avviso – dovrebbe essere ancillare a questa parte profonda di contenuti e prospettive (che generano opportunità imprenditoriali e possibili adeguamenti normativi, correlati a un senso ampio) e non il solo perno esistenziale di un’associazione.
Quale ruolo, quindi, per un’associazione moderna? Parafrasando Micheal Focault penso che si possa dire che il ruolo di un’associazione in questo presente (e futuro) turbolento sia quello di “sorvegliare, indirizzare e punire”!
Nel giugno 2014, in occasione dell’assemblea di Federabitazione-Confcooperative, le nostre cooperative di abitanti hanno compreso lo spirito con cui abbiamo detto che “piccolo è giusto”. Non è piu tempo, infatti, di pensare la rappresentanza facendo forza solo sui numeri e su una brama di gigantismo associativo. La priorità oggi per associazioni di rappresentanza come le nostre, riprendendo il filo logico di quanto copra esposto, è quella di innalzare sempre piu la qualità delle associate.
Anziché fare solo riferimento a grandi numeri, in un indistinto imprenditoriale che magari ha dimenticato la strada maestra, penso sia più utile presentare i casi di successo che hanno, nella loro natura, i requisiti per consolidare alta reputazione, replicabilità delle “cose” fatte e consenso dei soci (che sono cittadini). Così facendo si può forse trovare una nuova e più equilibrata forma di relazione tra poteri e attori sociali, selezionando con rigore i propri associati, così da determinare un allontanamento forzato o indotto di chi ha deviato dal corretto agire a base della cooperazione.
Per finire, dunque, penso si possa dire che la rappresentanza così come la si è conosciuta sino a oggi non è più, probabilmente, né efficace, né compresa; sia dall’opinione pubblica, sia dagli stessi “rappresentati”. Non è però pensabile fare tabula rasa. Ci si deve sforzare per passare a relazioni più fattive, concrete e meno formali, facendo meno intermediazione e più relazione. Soprattutto civile.
Non arroccandosi sugli “interessi” ma aprendosi alle opportunità che la relazione (sana) consente di coltivare.
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