Cooperazione
Innovazione e lavoro sociale: una conversazione tra l’Italia e il Canada
Sono passati quasi dieci anni da quando io e Valentina Castellini ci siamo incontrati. Insieme ad altri colleghi di Metodi Asscom & Aleph e per conto del Comune di Milano, abbiamo gestito il Laboratorio di Quartiere di Piazza Selinunte, al centro del quartiere popolare di San Siro che è davvero un luogo speciale ricco di risorse, bisogni e contraddizioni. È qui che abbiamo potuto sperimentare sul campo gli strumenti del lavoro di comunità imparando e cercando di intrecciare i desideri e le necessità degli abitanti e dei gruppi gruppi informali con le risorse delle istituzioni o degli enti del terzo settore. Per entrambi Piazza Selinunte è stata palestra e una porta di ingresso verso un percorso professionale nel sociale. Oggi io sono tra i fondatori della Cooperativa B-CAM e socio della Cooperativa Comin, una realtà storica della cooperazione sociale nel milanese. Da qualche anno invece Valentina si è trasferita a Toronto dove ha cominciato un dottorato in Geografia umana all’Univesità di Toronto. La sua ricerca esplora la storia e le trasformazioni del lavoro nel sociale guardando alla potenzialità ma anche alle sue contraddizioni. I nostri percorsi hanno in comune la passione per questa città ricca di centri e margini, l’entusiasmo per le iniziative dei suoi abitanti e la ricchezza “curativa” e generativa del suo tessuto sociale. Incontrandoci oggi ci siamo rivolti una serie di domande spinti dalla curiosità di mettere a confronto ed a fuoco le realtà che attraversiamo tra Milano e Toronto. Riportiamo questo dialogo per arricchire il racconto di un terzo settore in evoluzione che, combinando tradizione e innovazione sociale, sperimenta quelli che qualcuno chiama anche “distretti di economica civile”.
Valentina: guardando Milano da fuori mi sembra che in questi anni si sia fatta strada una parola chiave: innovazione sociale. Al di là delle definizioni istituzionali, mi racconti cosa vuol dire per voi fare innovazione sociale?
Luca: nel nostro lavoro quotidiano l’innovazione sociale si manifesta in un approccio che, pur mantenendo come obiettivo la rigenerazione dei legami sociali e la qualità della vita nei quartieri, si apre alla sperimentazione di forme e strumenti di intervento nuovi per passare dal “fare rete” al “fare sistema”. L’idea è di non riprodurre interventi assistenziali e attività che si aprono e si chiudono a seconda della durata dei bandi puntando invece a portare avanti iniziative organiche, sostenibili, che dopo una fase di necessario supporto riescano a mettersi a regime e andare avanti con le proprie forze. Il sostegno pubblico è fondamentale per garantire regia, risorse e riconoscimento specie nella fase iniziale. Tuttavia una logica di reale innovazione sociale implica il superamento di un approccio esterno, top-down, che si cala nel territorio a fronte di diversi bisogni e la sua sostituzione con interventi integrati nei quali le politiche pubbliche sono accompagnate e ridisegnate dal basso (bottom-up) con continuità. In questa chiave i servizi sono immaginati e realizzati come spazi ibridi per intercettare diversi bisogni e risorse, gruppi informali, formalizzati e istituzioni capaci, nel loro insieme, di completarsi a vicenda. A questo proposito sono profondamente convinto di quanto sostiene con lucidità Gino Mazzoli a proposito del lavoro sociale di comunità: “quello che è richiesto non è più il lavoro di comunità degli anni 80-90 volto ad includere una minoranza di persone marginali all’interno di una società coesa; oggi si tratta di re-includere una maggioranza dei cittadini in esodo dalla cittadinanza, in condizioni di infragilimento diffuso e di connettere le isole di solidarietà perimetrate. Un lavoro enorme che riguarda tutta la società e che non può essere portato avanti senza la collaborazione di tutta la società”.
Luca: raccontami di Toronto, qual è il contesto con cui il sociale si confronta?
Valentina: Per certi aspetti il mio è un punto di vista limitato, da nuova arrivata, ma posso senza dubbio dire che la città di Toronto sta attraversando un processo molto veloce e violento di aumento e polarizzazione delle disuguaglianze sociali. Negli ultimi dieci anni il mercato immobiliare è cresciuto incontrollatamente. La città è costellata di aree in costruzione, grattacieli salgono mentre si abita in ogni scantinato. Dover cambiare casa o essere sfrattati per un motivo qualunque, per molti oggi vuol dire dover andarsene dalla città e trasferirsi in quartieri residenziali lontani dai mezzi e dai servizi e mettere in conto ore di spostamenti. Questo riguarda le persone con redditi più bassi ma sempre di più anche classe media, abitanti storici e famiglie. Sta cambiando proprio la composizione sociale di intere aree della città. Conosciamo questo processo con il nome di gentrificazione ma vederlo accadere giorno dopo giorno è impressionante. Mentre cambiano tempi e spazi di lavoro e di vita, cresce anche la vulnerabilità di alcuni individui e comunità. Le organizzazioni no-profit sono tra le prime a intercettare le nuove aree di bisogno. Di conseguenza come alcune di loro hanno cominciato a fare un lavoro più esplicito di denuncia e risposta di fronte alle nuove forme di povertà e marginalità. Per esempio molte organizzazioni che conosco appoggiano campagne anti-gentrification, per il diritto all’abitare o per l’introduzione del salario minimo di 15 dollari all’ora. Contemporaneamente enti e associazioni storiche appoggiano gruppi informali e comitati o che chiedono risposte su temi che vengono ignorati dalle istituzioni locali, come il numero crescente di persone che fa fatica a fare la spesa e non arriva a fine mese o i dati, drammatici, sui morti di overdose per la diffusione di sostanze come il Fentanyl.
Parkdale, il quartiere dove vivo, è una comunità popolare storica dove la presenza di organizzazioni sociali è radicata. Tra queste uno dei primi drop-in uno spazio per e gestito da persone che vivono in strada. E poi una miriade di associazioni culturali, religiose ed etniche, corsi di inglese, doposcuola gestiti dagli abitanti, distribuzione di cibo, una clinica no-profit, servizi per la salute mentale e le dipendenze, e pure una legal clinic che offre supporto legale low-cost per esempio difendendo i comitati degli inquilini o facendo cause di lavoro pilota. Nonostante questo tessuto sociale unico in città, anche Parkdale subisce gli effetti negativi della gentrification. I piccoli negozi chiudono, ne aprono di nuovi per una clientela hipster, i prezzi delle case sono diventati inaccessibili e i residenti storici sono spinti altrove o nei casi peggiori, per strada. Il quartiere però sta mettendo in campo delle iniziative davvero interessanti. Per esempio alcune organizzazioni si sono messe in rete creando un community land trust. Si tratta di un’organizzazione, simile alle nostre cooperative a proprietà indivisa, che sta cercando di rilevare appartamenti prima che vengano acquistati dagli speculatori immobiliari, per preservarli in affitto a prezzi sostenibili. L’organizzazione ha di recentemente ottenuto il primo suo primo edificio, ma gestisce anche un giardino condiviso e sta cercando di investire su spazi commerciali per promuovere l’imprenditoria e il commercio locale.
Valentina: ogni contesto ha le sue specificità, che tipo di spunti potrebbe dare a Milano quello che ti racconto da Toronto?
Luca: Mi incuriosisce molto come le organizzazioni di cui parli combinino l’attenzione alla propria funzione di presidio sociale all’interno di un territorio in profonda trasformazione con la sperimentazione di azioni propositive e pragmatiche, molto coraggiose e concrete, come quella di gestire immobili o promuovere economie locali. Credo che da queste esperienze potremmo imparare ad avere meno timore del mercato e quindi meno titubanza di fronte al lanciarsi in imprese che hanno anche una componente commerciale. Tante volte le imprese sociali che provano a generare delle economie sono guardate con sospetto. Come se stessero compromettendosi, venendo meno a valori fondamentali. Io invece credo che dobbiamo essere capaci di “usare” a nostro vantaggio il mercato. Dobbiamo lavorare sulle possibilità di gestire beni e servizi pubblici in modo misto. Sono convinto che sia possibile rendere compatibile una missione sociale chiara con, ad esempio, la promozione di servizi a pagamento per i quali, chi può, paga e chi non può gode di facilitazioni. Io personalmente vedo la possibilità di ragionare e sviluppare interventi in aree nuove quali la cultura da diffondere ovunque (cortili, strade, piazze, street art…), l’ambiente come ecologia del quotidiano, il turismo locale, la valorizzazione dei beni comuni sottoutilizzati e degradati (aree dismesse, giardini, orti comunitari, luoghi marginali come sottopassi e massicciate ferroviarie…) e la promozione di messaggi “positivi” di comunicazione sociale e civica. Queste tematiche toccano funzioni, politiche pubbliche, modalità di relazionarsi e comunicare in riferimento alle quali il “sociale” ha tutto il potenziale per essere un campo di pensiero e d’azione molto generativo.
Luca: sono curioso, cosa si sa e pensa dell’esperienza italiana a Toronto?
Valentina: A volte mi capita di discutere con colleghi e amici della storia del terzo settore in Italia e quello che viene restituito spesso è una ammirazione per una tradizione che nasce dal basso, profondamente legata alla stagione dei movimenti, e al modo con cui questi individuarono il quotidiano come un luogo strategico per ripensare servizi, strumenti ma anche diritti. Mi sorprendo quando incontro persone, anche al di fuori dell’accademia, che mi citano Trieste e le sperimentazioni di Basaglia, spunti di Don Milani o mi chiedono di parlargli della Riace di Mimmo Lucano. Mi chiedono come hanno fatto le cooperative sociali a farsi strada scrivendo statuti che sono profondamente politici e a lavorare per anni senza nemmeno avere una forma chiaramente riconosciuta. Questa è una visione rosea, sappiamo che la cooperazione sociale si è trasformata molto, la professionalizzazione ha portato evoluzioni e involuzioni. Però diciamolo questo riconoscimento simbolico, fa piacere.
Valentina; come direbbero i canadesi, nominiamo l’elefante nella stanza, parliamo di lavoro, di fondi, di soldi. Come si sta da lavoratori nel sociale?
Luca: questo è un tema delicato. Oggi il settore è certamente dipendente dal rapporto con le istituzioni locali e il pubblico reso complicato dalla costante diminuzione delle risorse e la presenza di bandi per servizi con offerta al ribasso. La possibilità di sperimentare interventi innovativi va quindi ricercata al di fuori dei servizi tradizionali grazie soprattutto alle linea di finanziamento di fondazioni private che, in ogni caso, si contano sulle dita di una mano. Il costo del lavoro sociale, il reperimento di fondi per pagarlo dignitosamente sono una questione che alcuni enti affrontano giornalmente. In questa prospettiva io credo sia fondamentale distinguere quegli enti che, seppur con fatica, riconoscono la necessità di uscire da una logica assistenziale, dalla erogazione di servizi a mezzo di volontari e personale non pagato o sottopagato e la scelta, a volte coraggiosa, di avere dei dipendenti ai quali si riconosce professionalità e condizioni minime. Quando amici mi chiedono consigli di carriera nel sociale io scherzando suggerisco che in ogni famiglia, perché ci possa essere una persona che lavora nel sociale c’è bisogno di un’altra che abbia un lavoro sicuro e ben pagato. Non faccio dell’ironia; in molti casi, purtroppo è così.
Valentina: per concludere, quali pensi siano le le sfide con cui il sociale si confronta oggi in Italia?
Luca: Per riprendere una recente intervista a Stefano Zamagni, il sociale è davvero “sotto attacco” da parte di chi, come il nostro Ministro dell’Interno e le forze con cui è al governo, ne esalta criticità e contraddizioni a fini propagandistici e ideologici. La realtà è che il lavoro sociale e di comunità è diventato sempre più scomodo per chi promuove politiche di intolleranza. Queste politiche investono un tessuto sociale affaticato, frammentato e disgregato nel quale il rancore e il risentimento sono stati e sono più che curati e mediati, assecondati e coltivati ad arte. La crisi economica, sociale e culturale dell’ultimo decennio ha toccato profondamente le nostre vite e le scelte individuali e collettive ne risentono. In questa congiuntura, Milano è una eccezione per tanti aspetti. Le generalizzazioni rischiano spesso di essere forzature ma credo che la nostra città sia un esempio positivo in questa fase. Penso alle scelte su inclusione, integrazione e rispetto dei diritti di cittadini stranieri e migranti, alle iniziative sui quartieri e all’innovazione sociale messa in campo con generosità. L’amministrazione cittadina dialoga con il terzo settore e nonostante criticità gestionali e difficoltà, dimostra l’intenzione di investire in un modello metropolitano che immagina Milano non solo come centro economico-finanziario, attrattore di capitale immobiliare ma anche come laboratorio aperto a sperimentazioni di economie sociali e di sussidiarietà.
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