Cooperazione

Il Sistema Cooperativo nella crisi del Modello Emilia

26 Ottobre 2015

La vicenda storica del movimento cooperativo in Emilia Romagna si intreccia inevitabilmente con la nascita e il consolidamento di un modello di governo , che ha presentato nella sua storia elementi unici, e secondo molti irripetibili. Nato dalle lotte bracciantili e operaie nella seconda metà dell’ 800, il movimento cooperativo emiliano romagnolo si pose sin dai suoi albori, come il baluardo di un modello di organizzazione economica fondato sul mutualismo, sulla solidarietà, sull’autonomia del lavoro  contro un sistema capitalistico che produceva alti livelli di disoccupazione e precarietà delle condizioni di vita. Dalle prime forme di difesa dei soci lavoratori contro i rischi connessi ad uno sviluppo industriale violento (la formazione delle prime mutue, i fondi risparmiati come assicurazione contro la disoccupazione), il movimento cooperativo riuscì nell’arco di qualche decennio ad acquisire un ruolo centrale nei processi di sviluppo dell’economia regionale. Sarebbe utile approfondire i tratti principali di questa evoluzione, che in questa sede si cercherà di toccare brevemente.

Certamente il ruolo svolto dal movimento cooperativo in Emilia Romagna non può essere scisso dal peso che il Partito Comunista assunse in regione dall’immediato dopoguerra fino a metà degli anni ’80. Dal riconoscimento costituzionale della cooperazione, con l’introduzione dell’art.45 sino alla legge Basevi che si propose di dare attuazione ai dettami costituzionali, il fenomeno del “collateralismo” si tradusse tra le altre cose nella presidenza della Lega nazionale assegnata ai dirigenti del PCI locale. Guido Cerretti, Silvio Miana, Onelio Prandini, Lanfranco Turci da esponenti di spicco del PCI furono “prestati” alla causa della cooperazione.  I comunisti di allora capirono che la centralità strategica del movimento cooperativo nella vita politica ed economica del paese sarebbe stata utile non solo per rilanciare forme di organizzazione economica alternative a quelle capitalistiche, ma come elemento di costruzione di cultura politica. La sedimentazione di risorse di solidarietà e il consolidamento di legami fiduciari assicuravano una spiccata propensione alla partecipazione, stimolando una sensibilità a prendersi “cura” dei problemi collettivi. Tracce di comunità che costituirono l’humus culturale che consentì all’economia regionale di configurarsi come un vero e proprio “modello” sociale, connotato, da quella che Lanfranco Turci chiamò  distintività positiva. L’alba dorata dei distretti industriali degli anni ’70 si presentava infatti come una sintesi perfetta tra l’etica del lavoro e lo spirito comunitario che in-formava quei legami fiduciari e di mutuo-riconoscimento alla base dell’integrazione sistemica delle aree distrettuali. Il successo della piccola impresa, la sua capacità di “fare rete” può essere letto come l’esito di una dinamica sociale che ha saputo saldare libertà d’impresa e responsabilità sociale, creatività e legame diffuso. Un processo che si consolidò nella dialettica tra forme spontanee e interventi di regolazione politica. La funzione di regolatore istituzionale assunta dal Partito Comunista in Emilia Romagna si traduceva non solo nella ricerca di interventi pubblici mirati al rafforzamento del sistema cooperativo, ma nel riconoscimento del movimento come attore principale nella gestione delle linee di programmazione economica regionale.

Ad un welfare pubblico efficiente e generoso  nell’erogazione di servizi primari  si affiancarono  esperienze spontanee di mutualismo e solidarietà che contribuirono a connotare il tessuto civico emiliano di valori di civismo, corresponsabilità e solidarietà.

Questo rapporto strettissimo tra cooperazione e governo  contribuì certamente a rendere l’Emilia Romagna la regione primatista in termini di fatturato[1], con quasi la metà del fatturato nazionale, ma risultò alla lunga un elemento di ambiguità nella gestione delle relazioni di scambio nella dinamica istituzionale. Quando infatti, a partire dalla fine degli anni ’70 la morsa ideologica cominciò ad alleggerirsi e il tema della centralità dell’impresa cooperativa assunse un ruolo strategico, il paradigma della cooperazione venne travolto. Il passaggio dagli imprenditori –comunisti ai finanzieri della cooperazione rossa segna una fase di svolta nel posizionamento del movimento cooperativo all’interno dei processi di riorganizzazione economica del paese. Lo scioglimento delle forme di controllo ideologico e il venir meno della missione politica della cooperazione nel definire un orizzonte differente da quello del mercato ha segnato gradualmente una scissione tra le ragioni storiche del movimento cooperativo e la prassi dei rapporti di produzione capitalistici. Quando, come ricorda Lanfranco Turci , nella Lega venne ratificato il contratto autonomo dei dirigenti staccandolo dal salario medio dei soci, si consolidò il passaggio ad un sistema di impresa privata che operava una rottura con lo spirito mutualistico delle origini. Il progressivo processo di aziendalizzazione del sistema cooperativo ha prodotto da un lato la crisi dei meccanismi tradizionali di democrazia interna – a partire dal ruolo dei soci nel definire gli organi di vertice e le scelte strategiche di investimento, dall’altro ha aperto la strada a meccanismi di autoreferenzialità del management nella direzione delle linee generali di intervento.

Questa situazione ha legittimato un quadro in cui la dirigenza delle grandi imprese cooperative ha potuto muoversi in totale autonomia. L’attualità degli ultimi anni, dai fatti di Mafia Capitale allo scandalo in cui è rimasta coinvolta la CPL CONCORDIA, ci consegnano un quadro altamente compromesso, in cui lo scambio politico-clientelare si è consolidato nell’esautoramento degli strumenti di controllo.  La spartizione degli appalti, che ha interessato CPL CONCORDIA (cooperativa modenese leader nella gestione dell’energia),  riguardo la metanizzazione di Ischia e di altri comuni del casertano offre uno spaccato preciso dell’assetto dei rapporti che la grande impresa cooperativa ha negli ultimi anni tessuto con pezzi di burocrazia e di ceto politico. Il rapporto tra impresa cooperativa e Stato è uno dei nodi su cui oggi occorre riflettere seriamente, se si vuole restituire dignità e futuro al modello cooperativo. Infatti è innegabile che i fenomeni di corruzione prima richiamati sono avvenuti dentro un meccanismo di gestione della spesa pubblica rivolta a sostenere imprese interessate unicamente a controllare specifici segmenti del sistema produttivo. Lo scandalo di Mafia Capitale non rappresenta infatti una rarità. Un’inchiesta dello scorso anno condotta dal Corriere della Sera racconta di un’impresa cooperativa, la Codess, che ha chiesto ai neo-assunti una quota associativa di 4000 euro per entrare in società a dispetto di un salario mensile che si aggirava tra i 600 e 1200 euro[3]. Il consolidamento di blocchi di potere trasversali alla sfera della politica, della burocrazia e dell’impresa cooperativa impone infatti una riflessione sulla metamorfosi che sta attraversando l’apparato statale. . E’ indubbio infatti, che la dismissione dello stato dai poteri di controllo politico-istituzionale da un lato e dalle prerogative tradizionali nella gestione dei servizi essenziali, dall’altro, è un tema su cui occorrerebbe interrogarsi. L’apologia del terzo settore e della vitalità delle imprese del privato sociale assunti come elementi centrali del modello Emilia rischia, in questo quadro, di legittimare processi di privatizzazione e finanziarizzazione dei bisogni sociali.

Sarebbe gravissimo utilizzare il mito del modello Emiliano per assecondare  processi di dismissione dei servizi pubblici in nome di una retorica che fa perno sul volontarismo e sulla mutualità. In un contesto segnato dallo smottamento degli istituti tradizionali di tutela individuale e collettiva e da una crescente precarizzazione del lavoro, agitare il feticcio del Modello Emiliano equivale a legittimare forme di sfruttamento e di malaffare. Solo partendo da un’analisi puntuale di quello che è stato il  Modello Emilia, ovvero un rapporto virtuoso tra stato-impresa e protagonismo sociale si potranno dare prospettive ad un sistema che oggi appare largamente compromesso. Per fare questo occorre rimettere mano allo stesso impianto normativo che regola il funzionamento dell’impresa cooperativa, a partire dall’individuazione di nuovi organi di controllo che si assumano il compito di certificare i valori della cooperazione e che siano in grado di lanciare una guerra senza quartiere alle cooperative “spurie” e a tutto quello che si muove nella zona grigia dei rapporti tra stato e mercato.

[1] Oltre il secolo. Le trasformazioni del sistema cooperativo Legacoop alla fine del secondo millennio. Vera Zamagni e Emanuele Felice . Il Mulino 2006

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