Cooperazione
Il lavoro in carcere come rieducazione. A Belluno un progetto innovativo
È possibile coniugare una serie di debolezze e farne una leva di successo? Non c’è una formula standard ma quella adottata dalla cooperativa Sviluppo&Lavoro oltre ad avere i tratti dell’originalità ha ottenuto risultati di tutto rispetto a livello nazionale. C’è un misto di intraprendenza, capacità di guardare le cose con occhi inconsueti e la forza di non rassegnarsi al corso degli eventi in questa vicenda che in pochi anni ha consentito a oltre la metà dei detenuti del carcere di Belluno di avere un lavoro e, soprattutto, di coltivare speranze e acquisire competenze per dopo, per il momento in cui la detenzione forzata sarà solo un ricordo. Nel frattempo ha ridotto drasticamente le tensioni e i tentativi di suicidio all’interno dell’istituto, ha permesso il ritorno in Italia di lavorazioni prima delocalizzate e ha ridato energia e motivi di soddisfazione a un gruppo di persone fiaccate dalla crisi del 2008-2011.
Il progetto, avviato nel 2015, nell’ultimo anno è arrivato all’attenzione nazionale grazie alla partecipazione alla quinta edizione del premio Angelo Ferro con cui le Fondazioni Cariparo e Zancan individuano le realtà italiane più innovative in campo sociale. Tra i 265 concorrenti del 2021, l’attività della cooperativa bellunese è stata selezionata tra le venti finaliste. «Non so se alla fine saremo tra i 5 progetti premiati, ma già questo riconoscimento ci ha galvanizzato», ammette Gianfranco Borgato, presidente di Sviluppo&Lavoro.
Borgato è un volto noto del calcio nel Triveneto. In venti anni di carriera ha allenato in Promozione, Eccellenza e Serie D numerose formazioni tra cui Cordignano, Montebelluna, Conegliano, Belluno, Feltre e Sacilese e Portugruaro. Meno conosciuta la sua attività con un’impresa di edilizia, condotta in parallelo ai campi di calcio ma improvvisamente rimasta schiacciata dalla crisi economica cominciata nel 2008 e inaspritasi tre anni più tardi.
«Tutto nasce da lì, da quel momento di grande difficoltà», racconta Borgato. «Con l’impresa avevamo già fatto alcuni lavori di manutenzione per la casa circondariale di Belluno. In quegli anni il fallimento di diverse aziende del settore meccanico aveva lasciato senza lavoro i detenuti dopo quasi due decenni di attività. La direzione era alla ricerca di aziende in grado di garantire dei progetti continuativi. Inoltre, lo stato dei locali adibiti prima a officina e delle celle aveva bisogno di urgente manutenzione. Così ho pensato a qualcosa che potesse offrire una prospettiva diversa e nuova, coniugando l’approccio sociale di aiuto alle persone svantaggiate con l’obiettivo di fare impresa, lontani da logiche assistenzialistiche e con progetti sostenibili economicamente».
La forza lavoro c’era. I detenuti, come raccontava, erano già abituati a lavorare.
«Sì, soprattutto nel campo dell’assemblaggio, ma le persone avevano scarsissime competenze tecniche qualificate. Però il tempo trascorso in carcere non è occupato da altre attività, se non marginali, quindi la direzione dell’istituto e gli stessi detenuti hanno sostenuto con forza la nostra idea».
Mancavano i committenti
«Un po’ per il calcio, un po’ per l’altra mia attività, avevo stabilito negli anni molte relazioni con le aziende locali. Andandoci a parlare scopriamo che in molti processi produttivi o parte di essi vi sono attività o fasi di processo caratterizzate da alto contenuto manuale, semplice nell’esecuzione e non automatizzabili che sono state negli anni delocalizzate in altri paesi, prevalentemente per questioni di costo. L’innovazione a cui abbiamo pensato è stata quindi quella di svolgere in carcere con i detenuti lavorazioni di ritorno dall’estero, dalla materia prima al prodotto finito, con l’ausilio di macchinari e attrezzature, persuadendo le aziende a riportare la produzione in Italia».
È stato difficile trovare aziende che vi dessero fiducia? Immagino non sia facile superare stereotipi e pregiudizi.
«Abbiamo fatto delle prove. Un’azienda importante del territorio, avendoci già testati sull’assemblaggio soprattutto sui parametri di qualità e conformità di prodotto, rispetto dei tempi di consegna, flessibilità sia per le personalizzazioni sia per i lotti di produzione, ha deciso di credere all’iniziativa. Ha trasferito dalla Romania al carcere bellunese una prima calandra (macchinario per stampa) e diverse attrezzature minori per cominciare una produzione con l’impiego di persone detenute di panni e pelline per la pulizia degli occhiali, personalizzati con marchio dell’occhiale o del negozio dell’ottico. La sperimentazione iniziale dopo circa 8 mesi ha visto l’azienda, convinta dal successo dell’iniziativa, acquistare una seconda calandra per raddoppiare la produzione inizialmente prevista».
Quali sono le difficoltà di produrre in carcere?
«Per prima cosa c’era il problema degli spazi. Devono essere adeguati alle attività industriali e garantire i parametri di sicurezza. Per questo come azione preliminare con gli stessi detenuti impiegati come manodopera, grazie a un finanziamento della Fondazione Cariverona, abbiamo rimesso a nuovo i locali e per l’occasione abbiamo sistemato anche le celle, con un effetto immediato di maggiore benessere per le persone. Prima dell’inizio delle attività pratiche i detenuti hanno seguito i corsi sulla sicurezza per il rischio alto di infortuni in edilizia, antincendio e pronto soccorso. I corsi sono stati fatti da Metàlogos, un ente di formazione accreditato. Resta il problema che quello di Belluno, tecnicamente è inquadrato come una Casa Circondariale dove sono ospitati solo detenuti in attesa di giudizio o con pene inferiori a 5 anni. Questo “status” giuridico del carcere implica periodi di permanenza breve con un turn over altissimo, in quanto i detenuti nel giro di un giorno possono venire scarcerati senza preavviso o spostati in altra sede in base alle decisioni del magistrato. Non ci sono in Italia Case Circondariali che abbiano neanche lontanamente i livelli occupazionali di Belluno».
E con i detenuti, quali sono le principali problematiche?
«La stragrande maggioranza delle persone in carcere non ha mai lavorato, ha scarsissime competenze tecniche qualificate e spesso con difficoltà di tenuta sul posto di lavoro (ancora presenti), sono poco inclini al lavoro di squadra e a sottostare ad una gerarchia. Inoltre, qualsiasi evento che coinvolge la famiglia del detenuto o la sua condizione, ha riflessi diretti sul lavoro. Se viene negato un permesso, per esempio o arriva una condanna aggiuntiva che prolunga di qualche mese la permanenza in carcere, quella persona si demoralizza, si chiude, magari non si presenta al lavoro per una settimana. C’è da fare un lavoro di fino, anche psicologico, ma continuo. Il reparto, infatti, è governato da due persone non detenute oltre a me soprattutto per le necessarie negoziazioni e gestione del personale. Quest’ultimo è un elemento chiave per rispettare i parametri valutativi richiesti dalle imprese committenti».
Sul fronte economico, che impatto avete avuto e come sono inquadrati i lavoratori?
«La cooperativa è nata nel 2015. Come detto la prima azienda che ci ha dato fiducia nel giro di qualche anno ha raddoppiato la produzione. Abbiamo chiuso il 2020 con una produzione annua per piccoli lotti di oltre 6 milioni di panni per occhiali, personalizzate con il logo, impiegando mediamente nell’ultimo anno 40 persone detenute fisse, assunte con CCNL delle cooperative sociali, a tempo indeterminato per 33 ore settimanali. Ciò è stato possibile grazie ad un accordo sindacale siglato tra la cooperativa, le parti sindacali e datoriali che prevede un contratto con un salario previsto per i detenuti all’interno del carcere, all’uso dei locali del carcere senza sostenere affitto, vengono pagate solo le utenze. Solo nel 2020 abbiamo erogato 313.921.19 euro di salari e stipendi».
Ci sono state ricadute sul sistema carcere?
«Va detto in prima battuta che in Italia esistono esperienze che possono vantare questi livelli di occupazione stabile solo in pochissimi istituti penali, dove i detenuti risiedono con pene lunghe e definitive. La ricaduta in termini di qualità di vita per i detenuti e qualità di lavoro e sicurezza per il personale della Polizia Penitenziaria è stata stravolta in senso positivo. Sono, infatti, più che dimezzati i cosiddetti “eventi critici” che prevedono un intervento della Polizia Penitenziaria per essere risolti, esponendoli quindi a minori rischi. I detenuti, grazie al lavoro quotidiano, hanno routine di lavoro che gli impone di rispettare gli orari del reparto, obiettivi di produzione e di comportamento sul posto di lavoro e più in generale sviluppano e allenano tutte quelle competenze trasversali sconosciute prima della detenzione. Ne citiamo una per tutte la responsabilità individuale del loro agire rispetto a sé stessi, agli altri colleghi di lavoro e alla famiglia che li aspetta fuori. Con i circa i 650 euro netti al mese che guadagnano, oltre a non pesare sul sistema, possono autonomamente provvedere alle proprie necessità quotidiane e poter scegliere prodotti e merci da acquistare con il loro stipendio. Molti di loro hanno anche l’orgoglio di poter dire nei colloqui con la famiglia di lavorare e far avere loro tutto o parte dello stipendio guadagnato. Inoltre questo fa sì che chi esce dal carcere possa anche aver accumulato qualche risparmio per far fronte alle prime necessità una volta libero».
Immagine del laboratorio esterno alla casa circondariale di Belluno. Qui vengono inseriti alcuni ex detenuti
Da questo progetto come si è sviluppata la cooperativa?
«Per completare il processo di inserimento lavorativo la cooperativa ha attivato un ramo d’azienda esterno destinato a persone con misure alternative al carcere che può permettere un reale e progressivo inserimento nella comunità. In questa unità vengono attività simili a quelle svolte in carcere impiegando ex detenuti assunti o con tirocini lavorativi integrando il personale con altre persone segnalate dai servizi sociali (SIL, UIEPE, ecc.) per sostenere la pluralità dei soggetti impiegati. Da sottolineare che il responsabile della fabbrica esterna è un ex detenuto avviato al lavoro dalla cooperativa mentre era sottoposto a misure cautelari per tre anni. Accolto in fabbrica in semilibertà oggi, dopo aver finito il suo percorso, è rimasto dipendente di Sviluppo&Lavoro. Ha fatto una scelta di campo, non volendo tornare nella città dove aveva vissuto e dove era solito delinquere. L’impatto economico dell’unità produttiva è trascurabile ad oggi, ma sta creando notevoli effetti positivi sul territorio, sviluppando nuove reti e partnership. Infatti siamo sommersi da richieste di inserimento lavorativo per persone in difficoltà da parte dei servizi sociali dei comuni limitrofi, dell’Azienda sanitaria Dolomiti o anche dagli avvocati per ospitare loro clienti condannati ai lavori di pubblica utilità, oltre che da singoli cittadini disoccupati che sono venuti a conoscenza dell’iniziativa. Comincia anche una certa attenzione da parte delle aziende anche se allo stato, a differenza del carcere, non abbiamo ancora individuato un modello di social business sostenibile nel lungo periodo né definito una proposta economicamente interessante per l’industria».
E infine è arrivato anche il riconoscimento con il premio Ferro.
«Per noi, per i detenuti-dipendenti e per l’istituto di pena di Belluno è un grande motivo di orgoglio. Poco importa se alla fine ci verrà assegnato il premio (l’annuncio sarà dato a metà giugno ndr). L’inserimento tra i 20 progetti italiani più innovativi in ambito sociale riconosce il valore di questa idea, di come è stata messa in pratica e dei risultati ottenuti soprattutto sul fronte educativo. Anche solo simbolicamente partire da una materia prima e cogliere per la persona detenuta l’obiettivo di creare un prodotto finito diviene e rappresenta un’esperienza di successo. Per perseguire la costruzione del prodotto finito il detenuto, pur se in un ambiente protetto e vigilato, deve attuare comportamenti che prima dell’esperienza detentiva risultavano per molti sconosciuti: rispetto delle regole del lavoro, degli orari, dei comportamenti con i colleghi, delle scadenze imposte, degli obiettivi di quantità giornaliera da assicurare e, non ultimo, un posto di lavoro che consenta di poter onestamente guadagnare uno stipendio mensile».
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