Cooperazione
Buon compleanno, Legacoop: sii sempre audace come 130 anni fa
D’ufficio gli storici che celebrano anniversari dal mezzo secolo in avanti seguono un canovaccio abituale che impasta storia e avvenire: evocano un radioso passato, annunciano un radioso futuro, e così mediamente soddisfano un normale presente. D’altra parte, la trama del libro giallo della storia umana è piuttosto prevedibile e, dopo un inizio e varie vicende centrali, termina sempre con la morte di qualcuno.
Nel caso del centotrentesimo anniversaario dalla fondazione della Lega delle cooperative, tuttavia, è possibile ragionare su un biglietto di compleanno non formale, che pur non uscendo dai crismi del protocollo, ne osservi la storia per trarre davvero alcune indicazioni utili al futuro.
Premessa: la cooperazione ha costituito un fenomeno sociale, economico, politico, un’ideale, in alcune epoche un’ideologia, un’ancora di salvezza e liberazione, un ascensore sociale, una speranza collettiva, un agente politico, così complesso e impregnato dei pregi e difetti della condizione umana, che non finisce di stupire e incuriosire; sembra quindi, nonostante tutto, ben vitale, e quando pare appassire in un luogo, eccola rifiorire altrove. Non per caso, Ivano Barberini, uno dei cooperatori contemporanei che lasceranno insieme con i “padri fondatori” ben più di una riga nella storia del movimento internazionale, la paragonava al calabrone: notoriamente grosso e goffo, per legge fisica negato a volare, eppure in volo ronzante.
La cooperativa sorgeva insieme con l’economia di mercato, come impresa differente per logiche e forme da quella tradizionale capitalista, e ne accompagnava la diffusione nel tempo e nello spazio, affermandosi come una realtà persistente delle economie libere (e a volte in quelle non libere); oggi, è un fenomeno che coinvolge un miliardo di persone e non è uno scherzo, quindi, calcolare quanti essere umani che abbiano messo piede sulla terra almeno negli ultimi duecento anni siano stati cooperatori.
Benché esperimenti in tal senso si siano forse sempre avuti, e certamente si siano diffusi dal Settecento, tradizionalmente i primi cooperatori sono stati considerati i “probi pionieri di Rochdale”, 28 tessitori fondatori di una cooperativa di consumo a Manchester, nel 1844. “Probi”, “pionieri”, concetti un po’ epici, diciamo; e, infatti, la loro vicenda, peraltro reale, fu impiegata da un vero padre della cooperazione G. J. Holyoake che ne descrisse le gesta in uno scritto destinato a diventare una sorta di libretto rosso della propaganda internazionale; esso conteneva le parole giuste per convincere i lavoratori dell’utilità concreta di questa utopia, le modalità di funzionamento di questa semplice impresa a proprietà collettiva, ma soprattutto i principi della cooperazione (se vi interessano, leggeteli qui): le tavole della legge di ogni impresa e organizzazione cooperativa che, da allora, sono ancora oggi in vigore. Romantico, no?
Da allora, e dalla Gran Bretagna, la fiaccola prese a girare per l’Europa allargandosi a mano a mano che si allargava l’onda della – lenta, controversa, inarrestabile – Grande Trasformazione economica. In effetti, nel tutto tondo del progresso umano di quel secolo, l’altra faccia della diffusione dell’economia industriale, era il trauma che essa comportava nelle società. Un secolo stretto nella tettonica a zolle tra modernità e contemporaneità, del resto, doveva essere un luogo in cui si ballava parecchio. Fragilità, insicurezza ma, soprattutto, “precarietà” – parola molto usata per descrivere la condizione umana dell’epoca – producevano reazioni di autodifesa delle comunità, ossia la nascita di organizzazioni, prima sperimentali, poi selezionate darwinianamente rispetto allo scopo che si prefiggevano: i sindacati, per la difesa e la negoziazione; le mutue, per forme embrionali di autotutela e poi assicurazione e assistenza; le cooperative, appunto, per produrre o acquisire beni e servizi.
Così nasceva la cooperativa, impresa finalizzata a inserire nel mercato poveri di risorse ma ricchi di bisogni e competenze, condividere idee, mezzi di produzione, costi e benefici dell’attività economica. E così, nei pochi decenni successivi, nasceva la cooperazione come sistema di imprese, un “movimento” per intermediare e fornire una rappresentanza a ideali e interessi di queste persone associate per un comune bisogno. Infine, naturalmente, così si affermava una specifica cultura economica della cooperazione, che interpretava la produzione e lo scambio nel mercato come attività che meno impersonale non poteva essere, meno perfetta non poteva proprio essere, in quanto umana, sociale, comunitaria. Una cultura economica fondata sì sulla generazione di reddito ma pure, e forse soprattutto, sulla conservazione nel tempo dell’impresa, strumento di inclusione e giustizia sociale. È per queste vie che, in seguito, il movimento cooperativo avrebbe incontrato i filoni ideali progressisti e le forze politiche che li affermavano, connotandosi per un ruolo e una visione alternativa al capitalismo industriale e finanziario all’interno dell’economia di mercato.
Non so, già questo abbrivio dalle origini, e i tags che se ne possono estrarre, forse potrebbe bastare a spiegare perché la celebrazione del passato, in questo caso, è un utile argomento di dibattito per l’analisi del presente che ogni giorno osserviamo.
Sta di fatto che la fiaccola partita dalla Gran Bretagna, in pochi anni giungeva in Italia, a Milano, allora centro della trasformazione economica e sociale del paese, città già europea per vocazione; ma, soprattutto, luogo dove la tensione tra i due poli della modernità era evidentemente un fatto serio. È solo apparentemente contradditorio che nei manuali questo capitolo sia intitolato: la “crisi di fine secolo”. Mentre, da un lato, nasceva l’industria italiana e, infatti, significativamente qui si costruiva la più grande centrale elettrica del continente a supportare lo sviluppo industriale italiano, dall’altro lato, il feroce monarchico Bava gli affamati col piombo sfamava.
In questo quadro, una epocale crisi sociale e istituzionale, un grande rivolgimento dell’economia e della produzione, una città al centro dei network internazionali, una tensione tra conseguenze dirette e indirette dell’innovazione tecnologica, e bisogno di inclusione economica e sociale, nel 1886, a Milano, sorgeva la Lega delle cooperative. Essa, costituita per mano dei vari filoni di riforma sociale di matrice liberale, radicale, operaista, massonica, e, quando la Rerum novarum arrivava a permetterlo, anche del riformismo confessionale, nasceva per dare una rappresentanza agli interessi, ai bisogni, agli ideali del nascente movimento cooperativo italiano organizzato.
Nel corso dei centotrent’anni successivi, intrecciata alle vicende del Paese la cooperazione si conquistava un posto stabile da protagonista dell’economia, della società e a tratti della politica italiana. Il punto è che, dopo tutto questo tempo, trovandoci qui, dall’altra parte di un filo lungo oltre un secolo, la situazione sembra così diversa, ma così simile: speculare. La Storia, infatti, spesso oscura nelle sue intenzioni, è a volte molto chiara nel fornire i segni della chiusura dei suoi cicli e, quindi, per certi versi a indicare la strada da seguire.
All’incrocio in cui si trova, dopo anni di crescita spinta, e altri di crisi che ne hanno mutato sensibilmente le caratteristiche, ma non modificato la rilevanza, la cooperazione italiana sta per scegliere quale strada seguire. In proposito, ci sono almeno tre compiti storici da assolvere, per riattivarne un ciclo di sviluppo che aggiorni e riaffermi un ruolo significativo, forse ancor più significativo, nel futuro.
In sintesi; innanzitutto, assunto che la trasformazione tecnologica degli ultimi decenni ha mutato alle fondamenta le forme e i modi della produzione e del lavoro, la cooperativa come impresa deve dimostrare la sua persistente utilità, come forma organizzativa a finalità economica, ad agire nei mercati contemporanei. Nell’epoca dell’”industria 4.0”, la “cooperativa 4.0”, oltre a presidiare i settori tradizionali di attività, deve uscire dalle comfort zones e sapersi offrire quale valida alternativa alle imprese tradizionali per agire in modo efficiente, redditivo e sociale, accompagnando anche questa epocale trasformazione dell’economia di mercato. Così come nel 1844 il punto più avanzato della cooperativa era organizzare i consumi dei lavoratori tessili, o costruirne le case, oggi deve sapere offrire una risposta a fasce marginali, così come ai nuovi produttori digitali, dimostrando come i principi di solidarietà, mutualità, democrazia economica, siano base filosofica e materiale e terreno di incontro, per esempio, con pratiche e culture di sharing economy.
Inoltre, e per fare questo, il movimento cooperativo deve inequivocabimente adattare le proprie organizzazioni ad una realtà che, da tempo mutata, negli ultimi anni ha subito accelerazioni ulteriori. Non si tratta di un lavoro estetico, una manutenzione, come fino a pochi anni fa si poteva ritenere, poichè è la funzione stessa della rappresentanza oggi in profonda discussione, è la sua capacità di aderire a bisogni, interessi, ideali, e quindi a settori sociali, che esprimono, magari implicitamente sotto forma di domanda potenziale, nuove esigenze di interlocuzione e che possono assicurare la riattivazione di un ciclo di sviluppo futuro ai movimenti cooperativi. Non è un caso che, dopo decenni – letteralmente – di gestazione, dal 2011 sia in vigore l’Alleanza delle cooperative italiane (Aci). Questa nuova associazione di rappresentanza, che dovrebbe vedere la luce al principio del 2017, come è noto unirà in una sola “casa” le tre centrali Legacoop, Confcooperative, Agci. È chiaro che oggi, e rispetto ai compiti epocali in arrivo, il rimando a storiche distinzioni tra cooperazione socialcomunista, cattolica, o laicomazziniana (e alle pratiche organizzative derivate), non deve rallentare la creazione di un’identità comune e attuale. La lunga storia della cooperazione, con i suoi diversi pantheon, è un patrimonio da conservare non come ostacolo, ma come supporto alla carta internazionale dei principi: è a Rochdale il terreno comune su cui edificare le strutture del futuro.
Infine, e forse questo è l’aspetto su cui in questi anni la fatica si è più fatta sentire, la cooperazione deve rinvigorire l’orgoglio della propria alterità culturale rispetto al capitalismo. Essa, infatti, è fondata su una cultura progressista dell’economia di mercato che non può appannarsi o peggio omologarsi, pena non la “perdita dell’anima”, ma la perdita del senso. In questi anni trascorsi di globalizzazione, e poi di globalizzazione della crisi strutturale del capitalismo mondiale, non si è sentita abbastanza alta la voce di una forza sociale ed economica che rappresenta un miliardo di umani, e che avrebbe potuto indicare – per carità, magari inascoltata, ma pure il Papa lo era – un’alternativa alla crescita delle diseguaglianze, delle ingiustizie sociali, alle politiche economiche suicide e supine al capitalismo finanziario, e così via.
Infine, lo ammetto, io non sono un osservatore imparziale perché credo da troppo tempo e profondamente nella cooperazione; il mio augurio alla Legacoop del 2016, quindi, è di riuscire ad essere proprio come la Legacoop del 1886: giovane, audace e generosa.
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