Ambiente

Un cimitero di automobili a inquinare l’Africa

17 Marzo 2021

La saggezza popolare ci insegna come tra il dire e il mare ci sia di mezzo il mare. Come spesso accade, la saggezza popolare ha ragione. Tra i tanti casi concreti, quotidiani potremmo dire, ai quali si possa tranquillamente applicare questo detto e trovare come definisca perfettamente la situazione, per questo articolo ne ho scelto uno internazionale. Riguarda l’Unione Europea, seppure non direttamente, e la più scottante tra le questioni del nostro tempo, pandemia a parte naturalmente: l’ambiente.

Usato tutt’altro che sicuro

Entriamo nello specifico. Il porto belga di Anversa è un’importante direttrice del traffico commerciale marittimo e dai suoi scali passa una porzione consistente dell’import-export continentale. Fiorenti sono i rapporti verso l’Africa; nella fattispecie verso la Guinea e nello specifico per quanto riguarda il commercio di automobili e mezzi di trasporto. I veicoli usati nel territorio della UE infatti – principalmente in Belgio, Francia, Germania e Paesi Bassi – arrivati a fine vita o, comunque, ad una condizione nella quale in Europa non ci circoleremmo più, trovano nuova vita a quelle latitudini. Questa non è una buona notizia, come magari all’inizio potrebbe erroneamente apparire.

Si stima che, nel solo 2019, siano stati 320mila i veicoli di seconda mano che hanno preso il mare ad Anversa: gran parte di essi ha raggiunto l’Africa occidentale. Il numero di vetture è in aumento costante, da anni. Il proto belga non è il principale hub di esportazione dei veicoli, in Europa. Sia Zeebrugge (Belgio) sia Brema (Germania) hanno un giro d’affari maggiore relativamente ai mezzi di trasporto; nessuno però è meglio collegato all’Africa di Anversa. Tutti questi dati e riferimenti provengono da un’inchiesta firmata da Arnaud De Decker e Simon Oeyen per il De Standaard.

Conakry è la capitale della Repubblica di Guinea, Paese dove in realtà di democratico vi è piuttosto poco all’infuori del nome, dal momento che il presidente Alpha Condé, in carica ininterrottamente dal 2010, governa da dittatore de facto uno Stato in profonda crisi economica e sull’orlo della guerra civile da mesi. La Guinea ha importato, nel 2018, 67.313 veicoli. Il 64% di questi proviene dal Belgio e il 97% è usato. Sono numeri notevoli per un Paese nel quale mancano strade asfaltate percorribili e i limiti di velocità sono conosciuti soltanto da chi lavora in scuola guida. Dobbiamo a questo punto essere molto precisi. Quando parlo di veicoli d’epoca importati in Guinea intendo in realtà rottami di un’altra epoca i quali – secondo le leggi – non potrebbero essere venduti né tantomeno esportati e non dovrebbero avere destinazioni di consegna diverse da quelle di uno sfasciacarrozze. Le autovetture che raggiungono le coste guineane sono parte di quei 4 milioni di veicoli che, annualmente, spariscono dai radar europei (dati Trinomics). Di queste, un numero variabile tra 40 e 60mila è di prima immatricolazione in Belgio.

Foto di Vince Gx su Unsplash

C’è una legge belga, datata 2005, che obbliga automobilisti e concessionari a consegnare gli autoveicoli a fine vita soltanto a centri di rottamazione specializzati ed autorizzati. L’esportazione, però, offre numerose scappatoie a chiunque voglia monetizzare su vecchie automobili. La non tracciabilità è pressoché garantita. Qualunque siano le condizioni dei veicoli, in Africa occidentale è possibile trovare chi sia disposto a pagare qualcosa pur di motorizzarsi. Meglio se poi quel qualcosa è una cifra irrisoria.

Un parco circolante sporco e pericoloso

Presso il porto di Conakry si trova un autoparco misurante 38mila metri quadrati occupato da centinaia di veicoli che attendono di essere ritirati dai nuovi proprietari. Qui è possibile trovare auto e furgoni provenienti praticamente da ogni Paese d’Europa. Molti di questi mezzi sembrano veri e propri pezzi d’antiquariato, più adatti ad essere esposti presso un robivecchi che ad affollare le strade cittadine. Si fa anche fatica a capire come siano riuscite ad arrivare fino all’autoparco; poi però quando un muletto si avvicina ad una di queste vetture e la solleva per spostarla, l’arcano viene prontamente svelato.

Non ognuno di questi mezzi, infatti è in grado di circolare ed entrare a far parte di un insieme di veicoli tanto vecchi da apparire obsoleti, tanto inquinanti da sembrare veleno nelle narici di chi attraversa la strada dietro di loro, eppure tanto economici da essere merce pregiata, in un Paese povero come la Guinea. La maggior parte di queste auto usate viene consegnata ai garage cittadini dove vengono risistemate, qualora possano essere ancora utilizzate, oppure smontate per ricavarne pezzi di ricambio. La legge guineana, in accordo con le misure emesse dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cédéao), impone dallo scorso primo gennaio che sbarchino in Guinea soltanto veicoli che abbiano al massimo 10 anni e rispettino le norme Euro 4. In realtà, però, non sono molti quelli che seguono le nuove regole, e ancor meno sono le forze dell’ordine che dovrebbero farle rispettare. Allo stesso tempo, si limitano alla riparazione più elementare. Ad esempio, nell’85% dei casi non controllano l’aria condizionata dell’auto. A causa di questo fatto, ci troviamo di fronte a un ulteriore inquinamento (per saperne di più sugli aspetti tecnici, leggi questo articolo sulla ricarica aria condizionata auto).

In fin dei conti, il commercio delle auto usate è una filiera che dà lavoro a moltissime persone. Dal piccolo venditore di ricambi al doganiere che può procurarsi una vettura a prezzi di favore – quando deve veramente pagarla – e poi rivenderla sul mercato interno. La limitazione dei 10 anni appare eccessiva e non deve stupire se in un Paese come la Guinea dove i livelli di corruzione sono molto alti tutti chiudano almeno un occhio. Ecco come si crea uno dei parchi circolanti più sporchi e pericolosi al mondo. E se la Guinea fa pochissimo per arginare la questione, come mai l’UE fa ancor meno?

Foto di Mayowa Akande da Pexels

Problemi a monte

L’Europa deve affrontare la questione e la deve prendere di petto. In nessun modo un simile modo d’agire può andare d’accordo con le – stringenti – misure del green new deal. Se vogliamo rendere concreta la nostra azione comunitaria a favore dell’ambiente dobbiamo trovare una soluzione a questo esodo illegale di veicoli. Altrimenti le nostre intenzioni resteranno lontanissime dal nostro concreto modo di agire. Il mare che sta tra il dire e il fare, appunto.

Nel marzo 2020 la Commissione Europea, per bocca della sua presidente Ursula von der Leyen, presentò con decisione un piano di economia circolare e tutela ambientale, definendolo – e cito von der Leyen: “uno dei pilastri del green deal europeo.” Obiettivo finale di questo patto, è bene ricordare, è quello di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Spedire bombe inquinanti oltre il Mediterraneo non è una scelta molto coerente con questa intenzione. A Bruxelles hanno dichiarato che rivedranno la normativa attualmente in vigore sulla rottamazione dei veicoli fuori uso e ce lo auguriamo davvero perché altrimenti continuiamo a raccontarci favole.

Per ridurre le sparizioni dei veicoli si sta pensando di introdurre una sorta di passaporto digitale per la vettura. “La raccolta delle auto fuori uso è complicata perché senza tracciabilità non sappiamo chi sono i proprietari.” Dicono dall’OVAM, l’agenzia pubblica delle Fiandre che si occupa dello smaltimento dei rifiuti e che ha fornito un parere alla Commissione relativamente allo smercio di automobili. Finché non saranno prese misure più nette, il viavai di veicoli verso il Terzo Mondo non potrà che continuare. Anche in Africa devono rispondere ad un bisogno di mobilità e, in assenza di fabbriche automobilistiche nel continente nero, non possono che farlo tramite i nostri scarti.

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