Commercio
Sneakers: da simbolo di ribellione a metafora capitalista
Mi viene impossibile non rilanciare il bell’articolo di Abdul Malik, giornalista e sceneggiatore canadese, sulla sneakers culture e il capitalismo contemporaneo. Il pezzo è uscito su Jacobin Magazine ed è stato tradotto dalla redazione italiana della testata.
Dall’omologazione la forza
Vivendo in Italia probabilmente non ce ne rendiamo conto. Tra i tanti meriti del nostro Paese – dei quali molto spesso ci dimentichiamo – vi è anche quello di essere la più fiorente nazione al mondo in termini di moda. Sovente non abbiamo bisogno di omologarci alle tendenze, alle mode, non dobbiamo svenarci per acquistare l’ultimo modello prodotto da questa o quella multinazionale, perché il negozio d’abbigliamento del vicinato è in grado di fornirci capi migliori. I più giovani però sentono un bisogno di essere uguali ai propri coetanei, desiderano omologarsi con i loro amici e compagni di scuola; parte del processo di crescita di un giovane passa per il sentirsi accettato e, per riuscirci, deve avere gli stessi pantaloni, la stessa maglietta e lo stesso giubbotto del suo vicino di banco. E che dire poi delle scarpe?
La calzatura da ginnastica è ormai una divisa a sé. La si porta quotidianamente, la si mette con tutto. C’è gente che ci si sposa e c’è gente che la indossa, senza alcun tipo di problema, anche agli appuntamenti ufficiali e ai comizi politici – una su tutte, la vicepresidente statunitense eletta, Kamala Harris. Il mercato della scarpa da ginnastica è uno dei più fiorenti all’interno della milionaria industria della moda, una vasta macchina economica che mette in continuo scambio e sempre in relazione acquirente e venditori di prima, seconda e anche terza mano. Citando Malik, è un microcosmo che ci mostra molto bene lo stato attuale del capitalismo.
Nascita di un fenomeno socioculturale
Facciamo subito un passo indietro. Da dove deriva questa attenzione per le scarpe da ginnastica di tendenza – in una sola parola, le sneakers? Gli esperti fanno risalire la passione per queste calzature alla metà degli anni ’80, al 1985 per essere precisi. A quell’anno risale, infatti, il lancio dell’ambitissima Air Jordan 1, la madre di tutte le sneakers. Fu un fulmine a ciel sereno, un mutamento generazionale di cui noi italiani forse non abbiamo mai neppure sentito parlare. Per capirne l’importanza, infatti, dobbiamo comprendere che cosa avveniva in quel periodo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. In quel decennio la popolazione afroamericana stava portando avanti le sua ribellione, mai sopita dagli anni ’60 in avanti come abbiamo visto anche quest’anno grazie al movimento Black Lives Matter, con mezzi e strumenti nuovi, più vicini ai giovani. L’ultima evoluzione di questa lotta era la cultura hip hop, suddivisa nei suoi cinque pilastri dettati dai guru dell’Harlem Renaissance, quel rinascimento nero che era partito negli anni ’70: musica rap, breakdance, graffiti e arte di strada, turntablism o arte del mixaggio, del deejaying insomma, e infine il pillar più importante: la conoscenza, ovvero istruzione e avanzamento sociale.
I profeti della nuova società di colore, gli altoparlanti di una voce che si alzava dalle periferie abitate dalla minoranza povera, i principali strumenti di diffusione della controcultura nera negli USA, durante gli anni ’80, erano tre ragazzi del Queens. Le loro famiglie provenivano da Hollins, un nucleo non tra i più poveri del distretto newyorchese. Ciononostante, questi giovani presero in mano la bandiera della ribellione e la sventolarono altissima. Si tratta di Joseph Simmons e Darryl McDaniels ai quali si aggiunse poi anche il dj Jam Master Jay, che purtroppo ci ha lasciato nel 2002. Joseph e McDaniels avevano scelto dei nomi d’arte per la loro carriera da MC, maestri di cerimonie della cultura hip hop – rapper, per intenderci. Il primo si faceva chiamare Run, il secondo, utilizzando soltanto le iniziali del suo nome, DMC. Al loro sodalizio diedero il nome di Run-DMC ed ebbero il merito di completare la trasformazione della musica rap da voce della protesta a genere musicale vero e proprio, registrando per primi in studio e creando videoclip per la neonata MTV. Ebbene, proprio tra il 1985 e il 1986 il trio compose una canzone, destinata a diventare uno dei loro principali successi, il cui titolo è tutto un programma: My Adidas.
Grazie ai Run-DMC e all’intuito commerciale della Nike, gli anni ’80 divennero il decennio delle sneakers. Gli afroamericani vedevano in queste scarpe il loro biglietto per la realizzazione, la loro possibilità di concedersi lusso a prezzi accessibili. Può sembrare strano definire Nike e Adidas come marchi del lusso ma, di nuovo, dobbiamo considerare che negli States questi marchi sono un vero e proprio status symbol, una dichiarazione muta, una presa di posizione che permette al loro indossatore di guadagnarsi il suo spazio nella società. La moda, in quel periodo, era assolutamente ostile alla comunità nera; i capi erano prodotti pensando all’acquirente bianco, che aveva gusto e sapeva vestirsi, non allo zotico afroamericano. Tutto cambiò quando uscì la Air Jordan, pubblicizzata fin dall’inizio come una vera e propria dichiarazione di ribellione all’autorità bianca. I più grandi atleti neri dello sport, a partire dal suo testimonial, la stella dei Chicago Bulls, calzavano la scarpa esattamente come se stessero portando un’arma. L’Air Jordan 1 era la Colt di John Wayne degli anni ’80, il vessillo dietro il quale una nuova generazione di giovani poteva raccogliersi per combattere il potere dominante della cultura WASP che continuava a non accettarli. Fight The Power, avrebbe cantato nel 1989 un altro gruppo rap di colore di primissimo piano, che non a caso aveva scelto il nome di Public Enemy.
Neppure la NBA, lega che oggi si erge a paladina dei diritti delle minoranza, vide di buon occhio l’utilizzo della scarpa. Lo stesso Michael Jordan veniva puntualmente multato ogniqualvolta la indossava in campo, poiché inizialmente la lega decise di bandirla dai suoi parquet. La cultura metropolitana si era però già espressa e la sneaker delle sneakers era già divenuta il distintivo del giovane di colore. Non passò molto tempo prima che la Air Jordan 1, rigorosamente bianca, prese il soprannome di Uptown, data la sua incredibile diffusione ad Harlem.
30 anni di mercificazione e appropriazione culturale
Nei decenni successivi, è cambiato tutto. Riformulo. Per le comunità nere è cambiato molto poco. Gli afroamericani hanno forse leggermente migliorato la loro posizione nell’assurda e ingiusta gerarchia sociale statunitense – e dunque mondiale – non tanto perché il nucleo bianco che sta al vertice abbia cominciato a smettere di giudicarli in base alla loro componente etnica, bensì perché sono arrivate altre minoranze più odiate degli afroamericani: arabi – visti come pericolosi terroristi – e orientali – ritenuti subumani dati i loro ritmi lavorativi e diffusori di pericolose patologie, a iniziare dall’influenza cinese, come ha definito Donald Trump il COVID – e dunque gli afroamericani hanno guadagnato posizioni perché ci sono persone più diverse di loro.
Per i bianchi invece è cambiato molto. La cultura nera, inizialmente criticata e malvista, è stata depredata, acquisita da chi nero non è. La musica rap è oggi la più ascoltata al mondo, in tutte le sue recenti connotazioni; gli atleti di colore sono spesso tra i più ammirati e i collezionisti di sneakers sono per la maggior parte caucasici. La scarpa da ginnastica definisce lo streetwear, ne è il suo marchio principale, il più riconoscibile e – spesso – anche quello più costoso. I grandi brand di calzature coinvolgono sempre più spesso artisti, sportivi, celebrità e icone di stile pop per lanciare nuovi modelli, in edizione naturalmente limitata, delle loro sneakers di maggior successo. Tutti vogliono vestire urban. Nel corso degli anni ’90 abbiamo assistito a una vera e propria esplosione di questa moda: capi che prima erano prettamente legati al mondo dello skateboard o dell’attività sportiva sono diventati quelli più diffusi sulle strade delle metropoli gentrificate, non soltanto negli USA. Dai grandi magazzini e dai negozi specialistici, le sneakers sono arrivate nelle boutique di lusso, nei profili social degli influencer e sulle passerelle di tutto il mondo.
Accumulatori seriali e compravendita
La crescita esponenziale della domanda di scarpe da ginnastica non è soltanto un indicatore sociale. È anche un segnale economico importante. Visto il potenziale del prodotto, i produttori si sono gettati a capofitto nel settore. Creando prodotti in edizioni ultralimitate, autografate e con inserti curiosi e particolari, si è dato il via ad un mercato parallelo delle sneakers, il quale si muove su canali non ufficiali, passando di mano in mano la scarpa dopo il primo acquisto in store. Come spesso avviene quando si tratta di collezionismo, il margine di guadagno può essere incredibilmente alto, anche decine di volte superiore al prezzo di acquisto originale.
Le rivendite sono, sempre più spesso, il principale canale di acquisto del prodotto. Esse possono infatti essere davvero molto redditizie. Il rivenditore acquista a un prezzo x la scarpa in negozio, o online, all’uscita e poi la rivende a x moltiplicato per 2,5,10, se è bravo persino 20 o 30. Su YouTube si possono trovare video e guide di persone che vivono grazie alla rivendita di sneakers, le quali danno consigli – la cui attendibilità lascio giudicare allo spettatore – sul momento più adatto per rivendere la scarpa, su quanto possano oscillare i valori e come si debba fare per arrivare a padroneggiare ogni trucco del mestiere.
Parlando di abbigliamento da strada, non deve stupire che questi addetti ai lavori, sempre che così possano essere definiti, portino sulla strada il linguaggio utilizzato dalle banche e dalle società d’investimento di Wall Street.
Da merce a denaro
Non di rado, sneakers di un certo livello di rarità si trovano anche alle audizioni presso case d’asta come Christie’s o i suoi omologhi. Il codice linguistico di questi ambienti parla delle scarpe come se fossero opere d’arte, seguendo il pensiero dello stilista Tinker Hatfield per il quale le sneakers non sono altro che arte che si può indossare. Una simile dialettica, naturalmente, finisce per denaturare il prodotto. La scarpa, spesso, non viene neppure indossata ma tenuta come scorta – secondo la parola che, in gergo, indica una calzatura che non viene mai indossata ma semplicemente tenuta nella sua scatola, ammirata di tanto in tanto e poi rivenduta quando il momento si fa più ghiotto. Si stima che il mercato globale delle sneakers valga già 2 miliardi di dollari, soltanto come rivendita, escludendo dunque il giro d’affari dei negozi. Nei prossimi anni sembra destinato ad aumentare, raggiungendo un valore di 30 miliardi di dollari per la fine del decennio. Ciò si deve in gran parte all’iperproduzione di modelli in edizione limitata. Questa terminologia droga il mercato, come si suol dire, poiché la scarsità di un prodotto è inversamente proporzionale alla sua desiderabilità. Più bassa sarà la disponibilità delle scorte più alta sarà la domanda della merce. È il capitalismo, bellezza.
I mercati online, sempre più diffusi, sguazzano in questo mondo, naturalmente. Piattaforme per lo scambio di prodotti, dalle più diffuse – come Ebay – alle più specifiche – come ad esempio StockX, specializzata in scarpe – acquistano al ribasso e vendono al rialzo, esattamente come quegli youtuber che pretendono di insegnarci come diventare ricchi smerciando scarpe. Le sneakers ormai non sono più qualcosa da indossare – per quanto sicuramente ci sarà ancora chi ne acquista con il desiderio e l’intenzione di portarle ai piedi – poiché sono state snaturate e sono divenute una fonte di guadagno, un prodotto da acquistare pensando già a quanto si possa guadagnare in futuro dalla sua rivendita. Chissà che cosa ne direbbero i ragazzi di Harlem che le indossavano negli anni ’80 per manifestare il proprio dissenso.
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