Commercio
Negozi chiusi: l’universo parallelo dove il consumatore è re
La notizia è conosciuta: la nuova legge che limiterà l’apertura degli esercizi commerciali nei giorni festivi – di fatto una retromarcia rispetto alle timide liberalizzazioni del governo Monti – è in fase avanzata di discussione al Senato e presto verrà approvata anche alla Camera.
Parlare dei dettagli e dei principi che la ispirano, proporne l’ennesima critica, appare inutile e noioso: un po’ perché altri, come Stefano Feltri, già lo hanno fatto in modo puntuale, un po’ perché, in un paese dove ad ogni piccolo passetto in avanti ne seguono regolarmente almeno due all’indietro, arriva un punto in cui l’eterno ritorno dell’uguale, la necessità di rifare daccapo, ancora ed ancora, le stesse discussioni – si tratti degli orari dei negozi, del mercato del lavoro, della riforma delle pensioni… -, porta a sfinimento anche i più motivati.
Ciò non toglie che il velo della noia possa essere occasionalmente squarciato allorquando ci si imbatta in interventi che superano la realtà circostante e proiettano il lettore incredulo verso fantasiosi universi paralleli. E’ questo il caso del post apparso ieri sul noto blog dell’Espresso “Piovono Rane” di Alessandro Gilioli, post favorevole alle chiusure previste dalla legge succitata, e che già dal titolo non le manda a dire,
“E basta, cazzo, non siamo solo consumatori”,
la cui tesi è che, per colpa del liberismo (inspiegabilmente privo del prefisso NEO), il ruolo del consumatore goda di eccessiva centralità, che tutto giri un po’ attorno a questa mitica figura e che sì, insomma, basta! Si devono riequilibrare le cose,
“Uno degli effetti dell’egemonia culturale liberista, negli ultimi anni, è stato quello di convincerci che tra i vari ruoli che ogni giorno ci identificano individualmente e socialmente, quello di consumatore sia il principale, se non l’unico: di certo quello che ha più diritti e a cui tutti gli altri ruoli devono dare la precedenza”.
Ora, benché il primato del consumatore sia una cosa del tutto normale ed auspicabile,“consumption is the sole end and purpose of all production; and the interest of the producer ought to be attended to only so far as it may be necessary for promoting that of the consumer”, scrisse già Adamo Smith, certe affermazioni risulterebbero, se non sensate, almeno vagamente più aderenti alla realtà in contesti in cui effettivamente questi assume centralità. In Italia, tuttavia, politica, istituzioni e (molto spesso) imprese, ovvero buona parte del sistema economico, si caratterizzano per il continuo sforzo di sterilizzazione della libertà di scelta del consumatore/utente (e, nel caso specifico, anche della libertà per chi vuole di aprire il proprio esercizio quando gli pare), ovvero – ed è la stessa cosa detta diversamente – per il tentativo di estendere varie forme di salvaguardia a settori/operatori altrimenti non competitivi:
– Forse che il ministro Martina che accorre al Brennero alla manifestazione di Coldiretti sta in qualche modo pensando ai consumatori? Cerca forse egli di proteggerne il prezioso palato italico dallo “schifoso latte austriaco”?
– Forse che i trasporti pubblici della capitale servono ad erogare un dignitoso servizio di mobilità agli utenti? O forse i molto maltrattati utenti/consumatori sono un semplice mezzo per giustificare i posti di lavoro di un’organizzazione ipertrofica e disfunzionale che a tutto bada tranne a ciò che essi vorrebbero veramente?
– Forse che, mentre in altri e non lontani lidi, le aziende casearie investono in tecnologia, si sviluppano e conquistano nuovi mercati, i produttori di Parmigiano Reggiano privi persino di e-commerce, per i quali è ovviamente “impossibile lasciare lo sviluppo del settore al mercato”, i.e. alla scelta dei consumatori appunto, si interrogano sulle proprie manchevolezze? O preferiscono mendicare attenzione politica, cioè, in ultima analisi, aiuto per limitarla, quella scelta?
Si potrebbe continuare pressoché ad infinitum.
Lungi dall’essere il mattatore di cui fantastica Gilioli, il consumatore è l’ultima ruota del carro.
Ed anche quando viene evocato come meritevole di protezione – protezione dai pericolosi autisti di Uber, ad esempio, o dalle insidiose parafarmacie (gestite nulla meno che “con logiche commerciali e speculative”), qualora mai si consentisse loro di vendere i farmaci di fascia C -, tale evocazione altro non è che un trucco per gettare sabbia negli ingranaggi della concorrenza in favore di interessi costituiti, trucco mascherato da amorevole paternalismo. Ed allora panoplie di licenze, permessi, controlli, cavilli… regole che tanto più tendono a moltiplicarsi quanto più dovrebbero diventare invece superflue, in un’epoca in cui, come ben argomentano Alex Tabarrok e Tyler Cowen, i tradizionali problemi di asimmetria informativa perdono progressivamente rilevanza,
“Technological developments are giving everyone who wants it access to the very best information when it comes to product quality, worker performance, matches to friends and partners, and the nature of financial transactions, among many other areas. […] a large amount of economic regulation seems directed at a set of problems which, in large part, no longer exist”.
La maggior parte dei provvedimenti e dei rantoli anti-mercato cui assistiamo null’altro sono che tentativi di neutralizzare il lavorio lento e trasformativo delle scelte che ognuno di noi compie, in un paese che non sa e non vuole competere e che così facendo si vota al declino.
Trasformativo, perché, a dispetto del framing che ci viene proposto, a rendere obsoleti i taxi tradizionali non è in primis una tecnologia od una cattiva corporation multinazionale, ma la libera scelta di migliaia di consumatori – senza la quale Uber coi suoi miliardi nulla potrebbe – che optano per il suo servizio perché lo ritengono par varie ragioni più confacente ai propri desideri, e che sono stanchi di fare ore di fila all’uscita della stazione o dell’aeroporto. Il pericoloso e temuto mercato siamo noi, con la nostra miriade di piccole e grandi decisioni di consumo/acquisto.
Così il perenne fiorire di presunte eccellenze meritevoli di tutela, eccellenze che, guarda un po’, spesso e volentieri sono traballanti e moribonde perché altri attori, nazionali od internazionali, riescono ad incontrare meglio i bisogni dei potenziali acquirenti. Film da finanziare anche se non li guarda nessuno, aziende da salvaguardare come fossero l’ultimo esemplare di vaquita, giornali da sussidiare che nessuno legge, caciotte che sono immancabilmente le più buone dell’universo, ma che senza aiuti morirebbero disperdendo immaginifici “patrimoni di gusto e cultura”… a leggere le cronache ed auscultare il discorso pubblico si potrebbe perfino credere che il consumatore che sceglie sia un vero e proprio nemico da cui difendersi in ogni modo, altro che il dominus di cui si vaneggia.
Naturalmente, in certa misura il problema degli interessi organizzati contrapposti a consumatori numerosi ma dispersi esiste dappertutto, raramente però raggiunge la pervasività e la sistematicità che ha in Italia (ed in alcuni altri paesi europei fortemente appannati, come la Francia o la stessa Grecia, dove, ad esempio, il latte costa il 35% in più della media Ue, sempre per proteggere il consumatore, si intende). Sostenere che così non sia, non solo capovolge la realtà, ma, se ce ne fosse bisogno, mostra una volta di più che chi parla di egemonia liberista nel nostro paese non sa ciò che dice.
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