Commercio

L’olio di Tunisi, tra libertà e coercizione

12 Marzo 2016

La vicenda delle olive di Tunisi è ormai nota, e note sono le molte e condivisibili argomentazioni di chi ha provato a ridicolizzare le pretese di chi vorrebbe impedire all’olio nordafricano di attraversare il Mediterraneo. Tuttavia, anche nel campo di chi correttamente difende la decisione europea di rimuovere – seppur solo per due anni – certe restrizioni all’import, tende a emergere una curiosa comprensione dei termini del (presunto) problema di cui si sta discutendo da giorni. E’ il caso, ad esempio, del post su IlSole24ore di Ugo Tramballi, intitolato Compriamo tutti l’olio tunisino!. Secondo l’autore, firma solitamente assai lucida, esistono rilevanti ragioni strategiche (Isis, califfato, immigrazione fuori controllo…) per aiutare la Tunisia, ragioni che fanno premio sul “costo” che tale aiuto comporta per “noi“:

“Anche per tenerli a casa loro, aiutare gli immigrati richiede sempre un prezzo”.

Il prezzo da pagare sarebbe appunto l’apertura del mercato europeo alle merci provenienti da quel paese. Ma prezzo per chi, esattamente?

Certo non per i consumatori o per le imprese di trasformazione che liberamente scegliessero di acquistare quell’olio, per i quali i dazi in essere rappresentano non altro che una tassa – questa sì, un costo vero e tangibile – segnatamente una tassa sulla concorrenza. Ché il punto vero da cui partire, tanto ovvio quanto spesso negletto, è il seguente: restringere il commercio con l’estero – oltre che suicida, laddove grande parte dell’import è rappresentato da prodotti intermedi e semi-lavorati – significa primariamente limitare la possibilità di scelta di una moltitudine di individui e imprese, limitare la quantità, qualità e varietà di beni e servizi che essi (noi) possono (possiamo) acquistare. In quale modo ciò dovrebbe portare beneficio all’Italia, mentre eliminare le barriere sarebbe invece un costo, resta un vero mistero. Pensare all’import come al male e all’export come al bene – oltre che, con tutta evidenza, logicamente assurdo – è profondamente errato.

Se domani, per ipotesi, la Tunisia decidesse di regalarci l’olio (o la Cina tutto il suo acciaio), tonnellate e tonnellate di olio (acciaio), gratis et amore, saremmo più ricchi o più poveri? Dovremmo forse rispondere, “no, grazie, il vostro regalo ci infligge una perdita”? Né, in ogni caso, esiste alcun “noi” collettivo che verrebbe colpito, ma milioni di agenti economici con interessi diversi e spesso confliggenti, di cui i produttori di olio italiani rappresentano solo una minuscola parte. Minuscola ma organizzata e che per questo tende a prevalere sull’interesse generale, a ricorrere alla coercizione per mano della politica – dazi, tariffe, impedimenti vari… – anziché competere per intercettare le nostre preferenze; a tentare di costringerci a non comprare qualcos’altro, anziché persuaderci della bontà del rapporto qualità/prezzo del proprio prodotto

Inoltre, sostenere che qualcuno è danneggiato dal commercio internazionale è, a ben vedere, come sostenere che qualcuno è danneggiato dalla libertà contrattuale e dalla concorrenza. Ogni giorno, ogni nostra scelta di consumo premia alcuni e danneggia altri. Comprare un Mac danneggia Olivetti, comprare hamburger di soia danneggia il macellaio, leggere un e-book la libreria sotto casa, abbonarsi a Netflix il noleggio di dvd superstite all’angolo… Dovremmo forse mettere una tariffa o un dazio o una gabella per ognuna di queste decisioni? In altre parole, chi si ostina a indicare la presenza di perdenti nel commercio internazionale come giustificazione per limitarne con la forza la portata, in coerenza dovrebbe indicare, e di continuo, anche i perdenti nel commercio intra-nazionale e volerlo conseguentemente limitare allo stesso modo. Dal punto di vista etico ed economico, non c’è differenza alcuna nel cambiamento indotto dall’uno o dall’altro. Senza contare, ovviamente, che c’è una non secondaria questione temporale: focalizzare tutta l’attenzione sui perdenti di oggi impedisce lo sviluppo, l’adattamento e l’innovazione nel tempo, come preoccuparsi del fatto che la stampa recasse un danno gli amanuensi o la luce elettrica ai produttori di candele (tanto cari a Bastiat).

Il commercio è solo una manifestazione della sovranità del consumatore. L’unico modo pratico per liberare l’economia dai perdenti è cercare di congelare lo status quo, un passo costoso, inutile e vano, un passo che, nel lungo periodo, ha il solo effetto di rendere perdenti tutti.

 

 

 

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