Commercio
L’estasi consumista del Natale
Non voglio impensierirvi come in una storia dickensiana (anche se David Copperfield e Oliver Twist restano ancora i miei romanzi) ma sono nato in una famiglia abbastanza malestante e per me, ancora oggi, il cibo è la priorità assoluta. La mia “metafora ossessiva”. Anche se consumo pochissimo, guai a mancarmi il cibo. Ne morirei, letteralmente. Ricordo da piccolo il primo bollito, il primo amaro (si chiamava Cora, “amaro Cora”, una delizia!) il primo panettone, il primo schiumante, come lo chiamava la popolana Elide nel sublime film di Ettore Scola C’eravamo tanto amati . Delibando quelle bollicine mi sentivo già il Barone Hulot della Cugina Bette, pensavo già di aver raggiunto livelli di consumo tali da permettermi una cocotte in una mansarda parigina. Esageravo probabilmente: cresciuto nella penuria avevo i miraggi della falsa prospettiva. Ma non esagero quando dico che la mia prima vera e indimenticabile emozione, mai più raggiunta né eguagliata sul fronte dei consumi, è stata quando sono passato dalla Cinquecento alla Uno. Ah per la prima volta nella mia vita mi sentivo condotto da un’automobile e non io a condurla!
Ma come Edith Piaf io canto “Je ne regrette rien”, non rimpiango nulla. Se dovessi rinascere chiederei al buon Dio o al suo Facente Funzione, di concedermi la santa grazia di farlo esattamente come sono nato: affogato nella penuria, ma di darmi le stesse chance che credo di aver colto e massimizzato. Di poter apprezzare lo scintillante mondo delle merci vedendo il mondo dal basso, e di raggiungere grado dopo grado questo regno della Piccola Borghesia Sans Souci (imitazione della corte ferrarese di Schifanoia) dove mi trovo. In questi giorni di consumo felice (torno dal Supermercato con la gioia brilla come in un film di Franck Capra) ho visto gente serena intenta santamente a consumare; non sarò certo io ad aggiungermi al coro degli scontenti, alle voci di quelli che storcono le labbra e scuotono la testa.
Non amo il Pasolini che in piena contraddizione col se stesso consumatore seriale e locupletato seguace della Conspicuous consumption (così chiamava il consumo voluttuario T. Veblen nella sua Teoria della classe agiata), chissà quale perversione o perdita di innocenza vedeva negli acquisti, e non credo che la gente patisca un degrado antropologico se si mette sottobraccio un panettone, che oggi tra l’altro costa un’inezia, o si debba sentire in colpa perché immersa nell’ “orrido universo del consumo”. Se Pasolini è uno scrittore di sinistra (seppur una sinistra reazionaria, alla Rousseau: esiste, esiste) allora è il destinatario naturale di questa osservazione di un altro intellettuale di sinistra, Michael Walzer che aveva di mira Herbert Marcuse: «Non è mai stata una buona idea per la sinistra quella di collocarsi in netta contrapposizione ai valori della gente comune. L’attacco ai beni di consumo è il punto estremo cui può arrivare l’ostinazione dei critici della società, poiché la gente, privata delle cose, è resa libera per una politica non più di quanto siano resi liberi per l’arte gli artisti che fanno la fame. La privazione è privazione; non ci si può sottrarre al mondo del guadagno e della spesa semplicemente non guadagnando e non spendendo. La vita comune ha le sue esigenze, non soltanto di ciò che è assolutamente necessario, ma anche di ciò che è puramente desiderabile».(“L’intellettuale militante”, Il Mulino 1988)
Ma io, oggi, al Supermercato avevo l’aria bête del massaro siciliano soddisfatto che ha il seminato che viene su bene, e con gli occhi consenzienti dicevo a ciascuno dei miei vicini con il carrello: bravi, continuate, perseverate così, siate materialmente felici, se volete, se potete, se credete.
Viviamo in una società ancora cruda, feroce, infestata da pescecani come nell’epoca del protocapitalismo, forse. Sicuramente occorre porvi rimedio. Ma non dimentichiamo che questa nostra società affluente è sorta dal travaglio dei secoli, dalle guerre, dalla miseria e dal dolore. Che c’è stata un’epoca in cui la fame, non solo la mia, veniva tagliata col coltello, fatta a cubetti e ingurgitata. Non solo nella Sicilia arcaica della penuria e dell’afflizione. Anche nell’Europa centrale c’è stato un Evo, quello repertato dai fratelli Grimm, in cui il popolo affamato si raccontava fiabe dove le salsicce fantastiche erano così tante che si attaccavano al naso: fiabe raccontate ai piccoli per sedare la fame, per dormire cullati dalla salsicceria celeste, visto che quella terrestre latitava.
Penso che la società vada riformata, certamente. Che vada impedito lo sfruttamento feroce dell’uomo sull’uomo. Punita la crudeltà esercitata sul simile per cavarne il proprio lucro. Penso che le stesse cassiere del supermercato in questi giorni stanno soffrendo per assicurare la mia goduria di piccolo borghese consumatore soddisfatto. Non so come scusarmi con loro. Qualcosa bisognerà fare, quanto meno rinnovare loro il contratto. Ma sono alieno da cambiamenti palingenetici, e francamente mi sono iscritto al gruppo di chi irride chi dice “ è tutta colpa del neoliberismo”.
Sono abbastanza vecchio da ricordare che i giovani della mia età non volevano riformarla questa società, ma abbatterla, e al suo posto non ho mai capito cosa volessero insediarvi, forse il ristabilimento della penuria erga omnes. Questa società del benessere è fondata sul malessere di molti, ancora, tuttora. Non condivido l’ottimismo panglossiano dell’irresponsabile che non si pone limiti nel consumo senza limiti o che indulge nell’ottimismo del “migliore dei mondi possibili” così irriso da Voltaire, anche se era lo stesso Voltaire che nel suo Mondain esprimeva un ottimismo forse più devastante di quello di Pangloss o del Leibniz sfottuto a sangue, che si compiaceva, in quell’epoca di prima globalizzazione, delle merci coloniali che affluivano da ogni angolo del pianeta per fare “di cento piaceri un piacere solo”, che dubitava della ipotetica età dell’oro che starebbe sempre in un fumoso passato, che sfotteva il frugale Rousseau quando gli scriveva in una lettera che lui, Rousseau, forse avrebbe voluto che l’uomo regredisse allo stato di natura, riprendesse a camminare a quattro zampe. Non sono convinto come l’ottimista Voltaire che “Il paradiso terrestre è qui dove io sono” (così si concludeva il Mondain), ma so anche che la vita è un ospedale dove non solo è inutile cambiare letto ma a volte anche pericoloso.
E Buon Natale a tutti.
Devi fare login per commentare
Accedi