Commercio
La Catalogna indipendente? Una catastrofe (e già ora sta perdendo soldi)
La Catalogna indipendente? Andrebbe incontro a una vera e propria “catastrofe economica” secondo gli esperti sentiti da Gli Stati Generali. Un diplomatico occidentale in Spagna spiega: «I catalani scherzano con il fuoco. Le incognite geopolitiche, economiche e finanziarie sono molte».
Per Rodolfo Helg, direttore della Scuola di economia e management della LIUC-Università, l’indipendenza della Catalogna «nel breve e medio periodo sarebbe un disastro, l’economia subirebbe uno shock da riduzione di mercati esteri impressionante, difficile da quantificare. Basti pensare che il 66% delle esportazioni catalane finiscono nell’Unione Europea e circa un altro 20% è diretto in Spagna».
Dati confermati anche da Salvador Guillermo, direttore del Dipartimento di economia di Foment del Treball (in Catalogna, l’equivalente della nostra Confindustria). Che aggiunge: «Per il momento, fortunatamente, l’economia ha risentito poco della situazione. Certo, molte aziende, soprattutto quelle che fanno affari in territori diversi, devono contemplare un piano d’emergenza. Perché nell’ipotetico caso di un’indipendenza la dottrina dell’Unione Europea è molto chiara, e dice che la Catalogna non farà più parte dell’UE».
Le radici dell’indipendentismo catalano sono profonde. E hanno natura culturale, sociale e linguistica. Ma soprattutto, economica. “Madrid ci deruba, se la Catalogna fosse indipendente sarebbe più ricca” recita uno degli slogan più gettonati. “I madrileni fanno i fighi con i soldi nostri” dicono altri, attingendo a stereotipi che da secoli caratterizzano il dibattito nazionale. Della serie: gli andalusi sono pigri, i galiziani furbi, i madrileni orgogliosi, e i catalani spilorci (recita una nota barzelletta: “c’era una volta un catalano così tirchio, ma così tirchio, che stava sognando di prendere un caffè quando si svegliò per non pagarlo”).
Ma la realtà è un po’ più complessa. «Perché la Catalogna è più ricca della Spagna? Perché è specializzata nel vendere al resto del paese – spiega Ferran Brunet Cid, docente di economia europea all’Università Autònoma di Barcellona, e co-fondatore del think tank Economistas de Catalunya –. E in caso di un’ipotetica secessione, il commercio subirebbe ovviamente una contrazione».
Così come quello con il resto degli Stati membri dell’Unione Europea. Uno degli argomenti principali tra gli indipendentisti catalani è che una Catalogna indipendente continuerebbe a far parte dell’UE. Ma non è così. «Il nuovo Stato catalano si ritroverebbe automaticamente fuori dall’Unione Europea, su questo non c’è dubbio» conferma Annalisa Ciampi, docente di diritto internazionale presso l’Università di Verona.
A fine luglio, il ministro dell’economia spagnolo De Guindos ha avvertito che l’indipendenza costerebbe alla Catalogna un 30% del suo PIL e un raddoppio del tasso di disoccupazione. E un rapporto realizzato dal Ministero degli esteri spagnolo tre anni fa prevedeva, tenendo conto solo del calo dei flussi commerciali, un crollo del PIL catalano tra il 10 e il 20%.
«Ritrovandosi fuori dall’Unione Europea la Catalogna dovrebbe pagare i dazi per esportare – spiegano da Madrid fonti del Ministero dell’economia – ma non si tratta solo dei dazi e delle tariffe doganali. Parliamo anche di tutti i processi burocratici necessari all’esportazione al di fuori dell’UE, che rendono l’export più difficile e costoso».
Inoltre a un tavolo negoziale le dimensioni contano (si vedano le difficoltà che sta incontrando il Regno Unito, che pure ha quasi 66 milioni di abitanti, nel negoziare la Brexit con Bruxelles). «Fuori dall’Europa una piccola nazione di 7,5 milioni di abitanti farebbe di certo fatica a rinegoziare i trattati con entità ben più significative, come gli Stati Uniti e la Cina, senza esserne schiacciata – osserva Francesco Daveri, professore di macroeconomia della Bocconi School of Management –. D’altra parte nei negoziati a Bruxelles i grandi paesi alzerebbero le barricate contro il neo-Stato catalano per evitare il diffondersi del virus separatista a casa loro».
Ma le conseguenze di un’eventuale Catalexit vanno oltre le difficoltà a livello commerciale. «Ritrovandosi fuori dall’UE la Catalogna non avrebbe più accesso alla liquidità della Banca Centrale Europea, il che avrebbe un impatto assai forte sull’economia catalana – fanno notare le fonti del Ministero dell’economia –. Presumibilmente ci sarebbero delle delocalizzazioni. Senza contare che, se alla fine lo Stato catalano dovesse emettere una propria valuta e dovesse svalutarla molto rispetto all’euro, la gente perderebbe i suoi soldi».
In questo senso l’impossibilità di tenere il referendum, sottolineano sempre al Ministero, non si deve solo al fatto che sarebbe contro la legge: «l’impoverimento di una parte della Spagna è inammissibile».
Tra i catalani sentiti da Gli Stati Generali i sentimenti sono piuttosto eterogenei. «Io sono molto preoccupata – dice Raquel (nome di fantasia), che lavora in un’azienda edile nella provincia di Barcellona –. Fino a qualche settimana fa ero semplicemente stufa della faccenda, ma ora sono in ansia. Nel caso di una secessione non avrei dubbi: cercherei di andarmene dalla Catalogna».
Invece Oriol, titolare di un negozio di abbigliamento da Vic (una cittadina tradizionalmente indipendentista dell’entroterra catalano), è tranquillo. «È la Spagna che avrebbe i problemi economici, non la Catalogna. Senza la Catalogna, la Spagna crollerebbe. E sarebbe anche meno importante all’interno dell’Unione Europea».
Certamente la Catalexit «implicherebbe una rivisitazione di tutti i rapporti della Spagna con l’Unione Europea – sottolinea Ciampi – perché la Catalogna rappresenta una parte importante del suo territorio, sia in termini di popolazione che di PIL. Ad esempio, Madrid si ritroverebbe con meno rappresentanti all’interno del Parlamento europeo. Pensiamo poi al contributo degli Stati al budget dell’UE: questo non riguarderebbe solo la Spagna ma l’intera Unione, perché si tratta di costi ripartiti fra i vari paesi».
Resta però il fatto che, a differenza di una Catalogna indipendente, la Spagna rimarrebbe un membro dell’Unione Europea. Una considerazione di non poco conto per il futuro di un eventuale Stato catalano. «La Catalogna chiederebbe subito di entrare nell’UE, ma in primo luogo l’UE non accetta tutti, e in secondo luogo basterebbe il voto contrario della Spagna per impedirle di entrare» fa notare Helg.
Uno scenario ben diverso da quello dipinto dal movimento secessionista, che assicura invece la permanenza nella UE. In realtà però, gli accademici e imprenditori catalani sentiti da Gli Stati Generali ritengono nulla o minima la probabilità che la Catalexit si verifichi davvero. Fanno piuttosto notare che la Catalogna sta già subendo perdite economiche a causa delle tensioni tra il Govern a Barcellona e lo Stato centrale.
«Il conflitto è tra lo Stato spagnolo e il nazionalismo catalano. La maggior parte dei catalani non ha nessun problema» sottolinea Josep Bou, presidente dell’associazione Empresaris de Catalunya (Imprenditori della Catalogna). Che continua: «La nostra è un’associazione di circa 500 imprenditori, e siamo molto preoccupati. Dal 2012 al primo semestre di quest’anno il PIL catalano ha perso un miliardo di euro perché ha accumulato un saldo negativo nel numero di aziende: quelle che se ne sono andate sono più di quelle che sono entrate». Secondo l’agenzia di rating Axesor le imprese che hanno scelto di fare affari in Catalogna nel primo trimestre del 2017 sono state 337, mentre 405 l’hanno lasciata.
Anche Brunet segnala una tendenza preoccupante. «A causa del conflitto con lo Stato centrale il PIL catalano sta costantemente sottoperformando. Aziende (soprattutto di medie e grandi dimensioni) che hanno varie succursali, stanno deviando una parte del loro fatturato a Madrid perché alcuni dei loro clienti non gradiscono ricevere fatture da Barcellona. Altre creano un domicilio fiscale a Madrid, in modo da essere preparate nel caso dovesse succedere qualcosa».
Alcune grandi aziende se ne sono già andate. Una tendenza iniziata due anni fa, dopo che il parlamento catalano (a maggioranza secessionista) aveva proclamato l’inizio del processo verso l’indipendenza. Tra i primi a trasferire la loro sede sociale a Madrid colossi come Valls Companys (fatturato da 1,5 miliardi di euro) e l’holding Suez Environnement España (oltre 2 miliardi di euro di fatturato nel 2014).
Brunet segnala che pure la finanza sta preparando il piano B. «Le due banche catalane di peso nazionale, CaixaBank e il Banco Sabadell, hanno modificato i loro statuti in modo da poter trasferire la loro sede sociale da Barcellona a Madrid con un semplice CdA invece che con un’assemblea degli azionisti».
Ancora, nei contratti commerciali e immobiliari è spesso presente la cosiddetta clausola di secessione «per poter rescindere il contratto nel caso di una secessione della Catalogna – spiega Brunet –. Insomma, non è che se ne sia andato il 90% delle aziende, e neanche il 20%. Però si tratta di una tendenza preoccupante, che può pure far calare gli investimenti stranieri». In effetti anche gli investitori stranieri cominciano a chiedere l’inclusione di clausole per un piano d’emergenza nel caso di una Catalexit.
Ormai è difficile pensare che l’1 di ottobre si tenga un referendum in condizioni tali da poterne considerare valido l’esito, qualunque esso sia. Manca meno di una settimana, ma la tensione fra Madrid e Barcellona resta alta, e secondo un sondaggio di pochi giorni fa ben il 61% dei catalani ritiene che il referendum non sia valido per dichiarare l’indipendenza.
E hanno ragione, sottolinea Francesco Cherubini, ricercatore di diritto europeo alla LUISS di Roma. «Il diritto dell’Unione Europea è soggetto a quello internazionale, il quale limita il cosiddetto diritto all’autodeterminazione a tre ipotesi tassative: una politica di apartheid, un’occupazione straniera o un’occupazione coloniale. E nessuna di queste ricorre nel caso della Catalogna».
Foto in copertina: Estelada humana a Manresa el 7 de juliol de 2013, autore Josep Renalias Lohen11 (CC BY-SA 3.0)
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