Commercio
Frena il commercio mondiale, il problema è la crescita
La globalizzazione arretra. L’ultima vittima del rallentamento economico globale è il commercio internazionale: dopo una crescita tumultuosa negli ultimi 26 anni, interrotta soltanto temporaneamente dalla grande crisi internazionale del 2009, il volume stimato di beni e servizi scambiati nel mondo risulta in stallo da oltre 18 mesi intorno ai 13.000 miliardi di $. Un periodo così lungo di stasi non era mai stato sperimentato dall’economia mondiale. Ci sono certo stati dei rallentamenti nell’espansione degli scambi commerciali dovuti a recessioni o forti crisi regionali, ma l’accelerazione in alcune aree ha sempre più che compensato il declino registrato in altre.
Ad esempio, dopo la crisi finanziaria del 2009 nei Paesi sviluppati i tassi di incremento del commercio internazionale hanno frenato in maniera significativa, ma i volumi scambiati a livello globale hanno continuato a crescere, sostenuti dall’impetuosa corsa delle economie emergenti. La Figura 1 mostra molto bene questo fenomeno.
Figura 1
Si nota chiaramente come le economie emergenti abbiano accusato di più il crollo del commercio post Lehman Brothers, ma poi abbiano recuperato velocemente il terreno perso, incrementando il loro peso all’interno del quadro globale. La Figura 2 ci offre un ulteriore, interessante spaccato: tra le economie emergenti, contano soprattutto Cina ed India, mentre la perdurante crisi dell’Eurozona ha ridotto l’influenza del vecchio continente sugli scambi globali.
Figura 2
Risulta impressionante l’ascesa dei Paesi asiatici (Cina, Taiwan, India) negli ultimi 15 anni, con il primo sorpasso agli USA nel 2002 ed il secondo nei confronti dell’area Euro nel 2012. Di contro spicca la stagnazione degli scambi commerciali dell’Eurozona a partire dal 2011, dovuta soprattutto alla crisi delle importazioni dei Paesi Periferici.
Le cause specifiche di questo prolungato stallo sono complesse e sovrapposte: indubbiamente il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime di base ha svolto un ruolo chiave; alcuni studi evidenziano addirittura che il declino dei tre principali prodotti derivati dal petrolio ha contribuito per più della metà al calo dei volumi del commercio globale tra ottobre 2014 e giugno 2015. Un certo peso ha avuto anche la rivalutazione del Dollaro, che ha incrementato di circa il 15% il suo valore in 20 mesi; un Dollaro più forte sul mercato dei cambi implica che tutte le transazioni che si svolgono in valuta diversa da quella americana vengono contabilizzate con un valore più basso in Dollari.
Tuttavia questi fattori non sono sufficienti a spiegare la persistenza della stasi anche nel corso del 2016, dove il prezzo delle materie prime ha interrotto la discesa e recuperato parte del proprio valore, mentre l’apprezzamento del Dollaro si è arrestato ed anzi si è assistito anche ad una tendenza all’indebolimento della valuta USA, in connessione con i ripensamenti della politica monetaria FED e le tensioni indotte dalla Brexit.
Recenti ricerche della World Trade Organization (WTO) e del World Economic Forum hanno fatto emergere il crescente impatto di politiche commerciali improntate al protezionismo ed alla difesa degli interessi nazionali. La de-globalizzazione non è più solo un concetto “politico”, con l’arresto della crescita degli scambi commerciali diventa un fatto, confermato dai dati ufficiali delle principali organizzazioni sovranazionali. Di oltre 1000 misure di politica economica monitorate dal WTO nel corso del biennio 2014-2015, solo il 30% ha mirato ad un’ulteriore liberalizzazione e de-regolamentazione degli scambi commerciali, mentre il 70% dei provvedimenti varati riguardava restrizioni di carattere normativo al libero commercio. Nei primi 4 mesi del 2016 oltre 150 provvedimenti di tipo protezionistico sono stati varati, contro i 50 del 2010; sorprendentemente un numero elevato (l’81%) è attribuibile ai Paesi del G20, che contribuiscono ad oltre i 2/3 del commercio globale.
Tra le misure più utilizzate in senso restrittivo dai governi dei Paesi sviluppati, si annoverano i bail-out governativi verso l’industria nazionale (rimane emblematico il salvataggio dell’industria automobilistica americana da parte del governo Bush nel 2008) insieme a programmi di assistenza finanziaria e credito agevolato. Risulta scarso l’utilizzo di strumenti classici quali i sussidi o i dazi sulle importazioni, mentre è sempre più diffusa la richiesta agli investitori esteri di localizzare la propria filiera produttiva sul territorio: in sostanza, negli ultimi anni prevalgono investimenti esteri diretti con ricadute sull’economia locale in sostituzione del classico commercio internazionale. Per le multinazionali si tratta di un ritorno al passato, con mercati sempre più frammentati e regionalizzati.
Tuttavia, anche questo “cambio di linea” nella scelta delle politiche commerciali delle principali nazioni industrializzate è comunque da considerarsi più un effetto che una causa dello stop alla crescita del commercio internazionale. In un contesto dove la torta da spartirsi (i volumi di beni e servizi scambiati) non cresce più, si diffonde tra i maggior player economici la consapevolezza che maggiori quote di mercato per le proprie esportazioni possono essere ottenute solo a danno degli altri attori all’interno dell’economia globale. In altre parole il sistema economico mondiale si sta adattando ad una situazione di debole crescita persistente, dove la redditività degli investimenti è bassa (insieme ai tassi di interesse e all’inflazione) mentre gli incentivi alla globalizzazione ed alla delocalizzazione si stanno progressivamente riducendo.
L’analisi del fenomeno ci riconduce dunque alla domanda chiave: perché l’economia globale sta rallentando così vistosamente? Un’interpretazione complessa – comunque parziale – riconduce a fattori demografici (tassi di aumento della popolazione sempre più contenuti, rapido invecchiamento) ed ai costi reali dell’energia (le risorse migliori sono state già estratte, restano quelle di peggior qualità). In ogni caso, il futuro dell’economia appare sempre più local.
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