Commercio
Dimenticate la decrescita: comprare e vendere l’usato è l’essenza del mercato
Il salto della pulce. La rivoluzione dell’usato, edito da Altreconomia, è stato scritto da Pietro Luppi e Ettore Sole.
Il sottotitolo sintetizza perfettamente il contenuto di questa agile ricerca sull’evoluzione del mercato dell’usato in Italia. Assistiamo ad una vera e propria rivoluzione copernicana: l’usato da fenomeno periferico, economicamente marginale e socialmente marginalizzato, si muove verso una posizione centrale del processo di consumo.
Molti a corto di fantasia lo attribuiscono alla crisi economica e mostrano un certo ribrezzo per chi vende e compra qualcosa nel rigattiere sotto casa. Di solito sono gli stessi che, dopo qualche minuto, ti raccontano che la settimana prima si aggiravano fra le bancarelle di Notting Hill oppure l’anno scorso si sono fermati ad un garage sale lungo le strade degli Stati Uniti d’America. Classici esemplari di vintagisti in trasferta.
Gli uomini sono fatti così: sono attratti dall’esotico, da ciò che appartiene ad una cultura, ad una civiltà diversa. Nelle Wunderkammer del ‘500 si mettevano accanto ai reperti greci e romani, fossili mostruosi, animali in formalina, feticci tribali. I suddetti privi di fantasia sono gli eredi beceri di questa inclinazione: sono attratti dal pittoresco, come in quel vecchio sketch di Enrico Montesano.
Oggi sempre più persone si affidano all’usato, come venditori e come acquirenti. Secondo Findomestic, nel primo semestre del 2013 il 48% degli italiani ha fatto o intende fare ricorso al mercato dell’usato per l’acquisto di beni durevoli.
Chi frequenta i mercatini dell’usato, i mercatini vintage (le stesso cose dei primi ma con i prezzi più alti) e sempre meno quelli dell’antiquariato (cose diverse, di dubbia qualità che nel dubbio sono vendute a prezzi ancora più alti: non si sa mai) lo fa perché l’usato, il vintage non sono più il regno dell’antiquato e dell’obsoleto, l’accelerazione della moda e della tecnologia ci mette in una posizione per cui sempre più spesso quella cianfrusaglia sembra giungerci da un altro mondo. Paradossalmente gli oggetti che ci sono familiari sono appunto quelli dell’antiquariato, che ha colonizzato in passato le nostre case. D’altronde, se il consumo di beni ha sempre una sua valenza culturale e il consumo di merci è l’attività culturale di una società fondata sull’economia monetaria, il consumo di oggetti usati richiede una cultura più raffinata.
Questo libro racconta tante storie. Innanzitutto, la formidabile storia imprenditoriale di Ettore Sole, fondatore di Mercatino S.r.l., che ha rinnovato e fatto crescere il mercato dell’usato con una formula innovativa: quella del conto vendita. Al punto che oggi gli affiliati sono circa 200 e in tutta Italia ci sono circa 3.000 negozi che adottano la stessa formula. A questa storia se ne innestano molto altre, di integrazione sociale, di sviluppo economico a partire dalla gestione dell’usato.
Un esempio è il progetto di Aleramo Virgili di organizzare in cooperativa l’attività della comunità Rom di Roma per un mercato di oggetti usati. Oppure l’esperienza di Bidonville, un’associazione dove si praticava il baratto (argomento su cui ho espresso maldestramente la mia opinione). Racconta infine di Occhio del Riciclone che da anni si batte per una maggiore considerazione del mercato dell’usato, facendo leva soprattutto sui vantaggi che ne traggono tutti, tanto per citarne uno: minori rifiuti significano minori costi che l’amministrazione comunale deve sostenere per gestirli e posti di lavoro per coloro che si occupano del loro riuso e reinserimento nel circuito economico.
Andiamo alla fine del libro, l’ultima frase è questa: Evidentemente in Italia la patologica bulimia del consumo comincia ad attenuarsi. Speriamo, in altre parole, che il malato guarisca.
Per gli Autori, come si intuiva del resto leggendo il libro, il consumismo è qualcosa da cui guarire e l’usato è la terapia, che i malati stanno imparando ad assumere.
Probabilmente gli autori inferiscono, dalle lodevoli iniziative di integrazione sociale e di riflessione sugli effetti del consumo sorte dalla gestione dell’usato, la conclusione che ciò è dovuto alle virtù intrinseche dell’usato e trascurano l’ipotesi che essendo l’usato un settore bistrattato abbia dato spazio a chi bistrattato lo è per altri motivi e ha attratto persone con una certa sensibilità.
Io però non condivido la speranza degli autori che l’usato possa in qualche modo redimere il consumismo, nel senso di una sua contrazione, di una maggiore sobrietà dei consumi. Non la condivido perché il successo dei mercatini in conto vendita, la formula portata al successo da Ettore Sole, probabilmente ci racconta una storia diversa, una storia di emancipazione dell’usato, dai suoi detrattori e anche da certi suoi difensori che lo caricano forse di troppe responsabilità.
Il mercato, grazie alla formula del conto vendita, contribuisce ad emancipare il consumo dalla sua concezione tradizionale.
Emancipa il consumo da un ruolo che sia i suoi detrattori che i suoi sostenitori gli hanno assegnato: i beni esauriscono la loro funzione nell’appagamento di un bisogno e nel essere portati al di fuori del processo economico, il ruolo del consumatore è celebrare, consumando, questo rito di annichilimento. Con una distinzione alquanto brutale: i detrattori pensano che i bisogni siano limitati e che molti altri siano indotti, i sostenitori sostengono che nel consumo l’individuo esprima la propria identità.
La diffusione di queste formule dimostra che i beni, anche una volta consumati, hanno pur sempre un valore economico residuo che può essere realizzato, pertanto è il concetto stesso di consumo che entra in crisi e altrettanto il ruolo di consumatore. Non solo il consumatore ha l’opportunità di adottare comportamenti di consumo diversi da quelli imposti dal proprio reddito, oggetti che sono simbolo di classi di reddito più elevate, ma soprattutto può adottare comportamenti che nulla hanno a che fare con consumo,, che da molto tempo erano spariti dall’orizzonte delle possibilità degli individui: commerciare e negoziare.
In sostanza, all’interno di un processo di acquisto e consumo, la cosiddetta shopping experience, fa capolino un’altro atteggiamento di fronte a ciò che si acquista, la trade experience, ovvero il fatto che il consumatore non intende il bene esclusivamente come mezzo per soddisfare il proprio desiderio ma anche come riserva di valore e moneta di scambio per un futuro acquisto, di beni nuovi o usati. In sostanza avremo forse una relativa contrazione delle merci, perché le stesse sono riusate più volte più da più persone, perciò meno rifiuti, ma a livello individuale il consumo sarà analogo se non superiore a prima, solo che le merci non si buttano o si mettono da parte ma sono rimesse in circolo: la bulimia del consumo, inteso come acquisto di merci, non diminuirà.
Quali possano essere le conseguenze di un consumatore autenticamente attivo, perché commerciando si pone sullo stesso degli altri attori del processo economico, e non nel senso del marketing che è lo considera proattivo perché-sceglie-il-colore-delle stringhe-delle-sneakers-on-line, è difficile da prevedere. Forse maturerà una maggiore sensibilità nei confronti delle logiche commerciali ma non è detto che questo lo porti ad opporvisi, al contrario potrebbe maturare delle strategie per sfruttarle a fini egoistici. Da questo scenario mi aspetto non tanto la nascita di un fronte di rinnovamento dei consumi ma il proliferare di azioni dada, anarchiche, surrealiste nei confronti del consumo.
In questo scenario, la formula del conto vendita qualcosa di effettivamente geniale, come sostengono gli autori. Il conto vendita sarebbe geniale? Un attimo di pazienza.
Se voi foste in difficoltà economica, certo vendereste parte dei propri beni. Eppure, i rigattieri, i banchi dei pegni etc. che dovrebbero essere razionalmente gli interlocutori privilegiati nei momenti di crisi, perché comprano pagando in contanti, non hanno riscosso, salvo quelli dell’oro di cui parlo più avanti, grande sviluppo in questi anni di crisi. Ad aver successo è la formula del conto vendita, che oggi in Italia conta circa 3.000 negozi, di cui 200 affiliati in franchising a Mercatino S.r.l.. Questa formula poggia probabilmente il suo successo su un dispositivo mentale che in termini behavioral economics si chiama mental accounting, individuato da Richard Thaler.
Facciamo un esperimento mentale. In teoria, vendere un oggetto a 50 Euro ad un rigattiere, incassandoli subito, sapendo che lui lo rivenderà a 100 è preferibile all’affidare il proprio oggetto ad un mercatino in conto vendita per un prezzo finale di 100 Euro, con la speranza di incassare sempre 50 Euro, perché il resto serve a remunerare il terzista.
E’ preferibile perché si incassano con certezza e immediatamente 50 euro, nel secondo caso invece se ne incassano 50 ma solo in un futuro incerto. In teoria i negozi in conto vendita non dovrebbero quasi esistere. Tuttavia, dal punto di vista della mental accounting individuale, nel primo caso l’oggetto viene venduto a 50 Euro, nel secondo caso a 100 Euro. Pertanto, dal punto di vista della gratificazione non solo economica, il secondo è preferibile, perché si concilia meglio con il fatto che di solito gli individui tendono a sopravvalutare ciò che posseggono (il celebre effetto dote, scoperto da Kahnemman e Tversky e per il quale il primo vinse il Nobel per l’Economia), pertanto il conto vendita è preferibile alla vendita al rigattiere perché come individui tendiamo a vedere quello come prezzo a cui lo vendiamo e questo si avvicina di più a quello che noi gli attribuiamo. Infatti, il mercato dei compro oro è decollato quando la quotazione dell’oro era superiore al prezzo di iscrizione della contabilità mentale di ognuno ed è crollato quando tale quotazione si è avvicinata al prezzo iscritto nella nostra contabilità mentale. In sostanza il sistema del conto vendita in qualche modo rende più semplice mettere in vendita i propri beni e ci spinge per altri versi a vedere gli altri oggetti in vendita con maggiore indulgenza. In quest’ottica la formula portata al successo da Ettore Sole ha del geniale.
In un paese meno schizzinoso del nostro, l’impresa di Ettore Sole, che da 20 anni prospera e permette ad altri imprenditori di crescere, otterrebbe quell’attenzione e quel prestigio che da noi sono assegnate ad imprese dai conti economici non proprio solidi e dai modelli di business che non stentiamo a definire “oh molto pittoreschi”.
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