Commercio
Avanza il Made in Africa, creata l’area di libero scambio più grande del mondo
Cinquantaquattro paesi. 1,2 miliardi di persone. Un Pil complessivo di 2.500 miliardi di dollari. Sono alcuni dei numeri dell’area di libero scambio africana lanciata lo scorso 7 luglio a Niamey, in Niger. Dopo quattro anni di discussioni accanite e negoziati complessi, sembra ormai che l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) stia per diventare l’area di libero scambio più grande del pianeta dai tempi della nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), nel 1994.
Un’opportunità di sviluppo e crescita economica unica per un continente dal grandissimo potenziale. Che già oggi è il secondo più popoloso del mondo, e sede di veri colossi industriali e minerari come Sonatrach (idrocarburi, Algeria), Steinhoff (mobili, Sudafrica), Sonangol (idrocarburi, Angola), Eskom (elettricità, Sudafrica), Sasol (chimica, Sudafrica), Dangote Group (cemento, Nigeria).
Per molti analisti ed esperti l’Africa potrebbe diventare la nuova Cina. Secondo Basil El-Baz, presidente del gruppo petrolchimico egiziano Carbon Holdings, entro cinquant’anni l’etichetta “Made in Africa” sarà ubiqua quanto oggi quella “Made in China”. Sta già accadendo: grandi imprese europee e asiatiche (incluse realtà italiane come Calzedonia e Marzotto) continuano ad aprire stabilimenti in paesi in rapida industrializzazione quali il Marocco e l’Etiopia; porti come quello di Tangeri e Gibuti, o metropoli del calibro di Nairobi e Addis Abeba, sono in pieno boom economico ed edilizio.
I numeri, del resto, parlano chiaro. La popolazione africana è la più giovane del mondo e ha talento, creatività e voglia di fare: lo prova il fatto che alcune delle startup hi-tech più interessanti degli ultimi anni sono nate a Nairobi, Città del Capo, Johannesburg o Lagos. Molti paesi del continente possono contare su un’incredibile abbondanza di materie prime strategiche per la knowledge economy globale, come rame, coltan, oro, cobalto, manganese, platino…
Ma sino a oggi le economie africane non sono riuscite a esprimere il loro pieno potenziale. Colpa, prima di tutto, dell’eredità coloniale, e del neocolonialismo. Che hanno prodotto stati fragili, seminato conflitti, sostenuto élite corrotte, creato confini assurdi e arbitrari. Non è un caso che la rinascita dell’economia africana coincida con l’attivismo economico cinese nel continente. Pechino, ovviamente, fa solo i suoi interessi, ma la fame cinese di materie prime e i cospicui investimenti infrastrutturali in loco (da qualche parte i renmimbi vanno investiti, T-bond a parte) hanno senz’altro spinto la crescita di molti paesi, come l’Etiopia.
Ancora, la cooperazione internazionale, e un nuovo stile di investimento da parte di francesi, olandesi, britannici e italiani, hanno contribuito a iniettare fondi e know-how nelle economie africane. Lo dimostra il caso M-Pesa: questa tecnologia, che ha reso possibili i pagamenti via cellulare in un continente dove gli sportelli bancari sono pochi e lontani dalle campagne, è frutto di una collaborazione anglo-kenyota, partita da un’iniziativa pionieristica del colosso britannico Vodafone.
Oggi M-Pesa opera con successo in tutta l’Africa. Un modello per le aziende nigeriane che sognano di operare in Kenya, o per le aziende ruandesi che puntano ad aprire una succursale in Etiopia. Ecco perché l’AfCFTA è così importante: rappresenta un’altra pietra miliare in un percorso di integrazione tra economie africane cruciale per lo sviluppo di tutto il continente.
«Se gestita bene l’AfCFTA aumenterà il commercio intra-africano e migliorerà le condizioni dei paesi e delle famiglie africane – dice a Gli Stati Generali Njuguna Ndung’u, direttore dell’African Economic Research Consortium –. L’espansione dei mercati per i beni e i servizi, unita alla riallocazione di risorse, dovrebbe stimolare la diversificazione economica, le trasformazioni strutturali, lo sviluppo tecnologico e la valorizzazione del capitale umano».
Un’AfCFTA a pieno regime sarebbe una buona notizia anche per l’Unione Europea. E in particolare per Francia, Germania, Spagna e Italia, che nel 2017 rappresentavano quasi il 60% di tutto l’export UE verso il continente africano, ed erano anche i maggiori importatori di prodotti dall’Africa. Uno scambio complessivo di beni per oltre 168 miliardi di euro.
Certo, la strada è ancora lunga e i problemi non mancano. L’Eritrea, ad esempio, non ha ancora firmato l’accordo. Inoltre, sebbene gli altri 54 paesi africani l’abbiano firmato, a oggi l’hanno ratificato in appena 27, e l’AfCFTA si trova ancora nella fase II dei negoziati per la sua attuazione. A dirlo è stato lo stesso Carlos Lopes, ex direttore della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa, e tra i fautori dell’AfCFTA: “si tratta ancora di un accordo debole, che richiede molto lavoro”.
Ma gli esperti e osservatori sentiti da Gli Stati Generali si mostrano ottimisti. «È un passo molto importante nella giusta direzione – sostiene Anthony Black, professore di economia all’Università di Cape Town –. Penso che sarà una vera opportunità. Ed è anche un segnale positivo a livello mondiale, in un momento in cui assistiamo a uscite da accordi regionali di libero scambio, con la Brexit, e la guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina».
Concorda Dirk Willem te Velde, ricercatore senior dell’Overseas Development Institute, un think tank indipendente di Londra. «Completare e attuare le disposizioni dell’AfCFTA richiederà parecchio tempo, almeno trent’anni probabilmente. Ma è il processo che conta. Nessun paese ha trasformato la propria economia e creato posti di lavoro di qualità senza impegnarsi in modo significativo nel commercio e negli investimenti. Lo stesso vale per il futuro dei paesi africani».
Se i negoziati sui protocolli per gli scambi di beni e servizi sono a buon punto, restano ancora da definire le tabelle tariffarie, le norme sull’origine dei prodotti, e quelle che regoleranno il settore dei servizi. Particolarmente importanti, queste ultime, dato che l’AfCFTA punta a liberalizzare e integrare il mercato dei servizi, a partire da trasporti, comunicazioni, servizi finanziari e alle imprese, e turismo.
La posta in gioco è altissima: si tratta del futuro di un intero continente. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso dicembre dal FMI, “la deframmentazione dell’Africa tramite l’AfCFTA è il primo passo verso l’aumento della competitività e l’integrazione delle economie africane in quella mondiale come soggetti attivi della globalizzazione”.
Uno studio della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa stima che il commercio intrafricano, dominato in gran parte da prodotti industriali e manifatturieri, potrebbe crescere di oltre il 50%, e persino raddoppiare, entro un decennio dall’attuazione dell’AfCFTA. A condizione, certo, che le riforme previste dall’accordo di libero scambio siano pienamente realizzate e integrate da solide misure di agevolazione degli scambi.
Tuttora i paesi africani commerciano molto più con il resto del mondo che fra loro, e il commercio intraregionale rappresenta solo il 15% del commercio africano totale. Mentre, tanto per dare un’idea, in Europa è il 68% e in Asia il 58%. La Costa d’Avorio esporta molto più verso Paesi Bassi, Stati Uniti, Belgio e Francia che verso il Ghana, la Guinea o il Mali, con i quali confina.
Una situazione che ha molto a che fare con le infrastrutture del continente. Realizzate in epoca coloniale per l’esportazione di materie prime, non sono cambiate granché dagli anni ‘50, quando molti paesi africani hanno cominciato a recuperare l’indipendenza. Un vuoto che deve essere colmato se si vuole che l’AfCFTA diventi davvero un “game changer” e non rimanga una scatola vuota. Saranno necessari grossi investimenti, ma al momento il continente africano riceve meno di un decimo degli investimenti stranieri diretti (FDI) destinati all’Asia.
L’implementazione dell’AfCFTA, nota Willem te Velde, sarà positiva per i consumatori africani, «che potranno comprare i prodotti africani a prezzi migliori di adesso. Nel lungo termine ritengo che anche il settore dei servizi, oggi molto protetto in Africa, possa crescere in modo significativo».
Secondo Black, anche l’industria dell’abbigliamento, già oggetto di un intenso commercio regionale, potrebbe trarre vantaggio dall’AfCFTA. «Pure il commercio di prodotti alimentari lavorati, già considerevole, ha un enorme potenziale – continua l’economista –. A tempo debito poi, anche l’industria automobilistica potrebbe beneficiare di un mercato continentale così vasto e in espansione».
Cruciale, per Ndung’u, è che «i paesi africani puntino soprattutto all’obiettivo principale, ossia incrementare il commercio intrafricano per eliminare la povertà e promuovere lo sviluppo sostenibile e inclusivo di tutto il continente». Naturalmente c’è anche chi esprime scetticismo. Ma questo accadeva anche all’alba del mercato unico comune qui in Europa. Eppure si sa che, se c’è qualcosa di davvero efficace per unire gli esseri umani, sono gli interessi economici e le opportunità di migliori condizioni di vita.
Immagine in copertina: Pixabay
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