Artigiani

La via italiana al digital manufacturing

22 Ottobre 2015

Di recente ha fatto il giro del mondo una dichiarazione del direttore operativo di Nike, Eric Sprunk. A una conferenza tecnologica il manager ha detto che in un futuro non così remoto i consumatori potranno stamparsi a casa, con una stampante 3D, un paio di scarpe Nike. La notizia è degna di nota, non c’è che dire. Ma non stupisce che venga da oltreoceano. Perché in effetti è proprio questo, nel bene e nel male, l’approccio americano alle potenzialità della rivoluzione del digital manufacturing.

Prendiamo il caso di 3D Systems, mega-produttore di stampanti 3D quotato anche alla borsa di New York. Nel 1988, l’anno in cui decisi di fondare l’antesignana dell’azienda che oggi si chiama HSL (ispirato proprio dalla lettura di un articoletto scritto da Charles Hull, padre della stereolitografia), la 3D Systems era ancora una startup. In meno di trent’anni si è trasformata in una multinazionale con oltre 20mila dipendenti in tutto il mondo. Un altro caso interessante è quella della Stratasys, quotata al Nasdaq. Le origini dell’azienda risalgono al 1988, quando il suo odierno presidente Scott Crump inventò il prototipo della modellazione a deposizione fusa (FDM), combinando cera e plastica nella cucina di casa. Oggi la Stratasys occupa circa tremila persone, e dopo essersi fusa con l’israeliana Objet nel 2012 ha acquisito promettenti aziende (tutte a stelle e strisce) come Solid Concepts e MakerBot Indutries.

Insomma, l’industria americana del 3D printing non sarà importante quanto altre industrie ad alta intensità tecnologica come quella del biotech o del software, ma è comunque una realtà in forte crescita. Questo spiega come mai gli americani siano così attenti alla dimensione consumer e domestica della stampa 3D. Se tu progetti e fabbrichi stampanti 3D, è naturale cercare di venderle non solo alle imprese, ma poi anche ai professionisti e alle famiglie. Non a caso nel sito della già citata MakerBot si auspica “una stampante 3D sulla scrivania di ogni ingegnere e designer” (possibilmente, la MakerBot Replicator Desktop 3D Printer).

Quasi trent’anni fa anche negli Stati Uniti la stereolitografia era una tecnologia d’élite concepita per un uso industriale. Oggi l’orizzonte è un altro. Ed è comprensibile che sia così. Uomini come Bill Gates hanno costruito la loro fortuna immaginando, nei lontani anni Settanta, un mondo con un computer su ogni scrivania e in ogni casa, proprio come negli anni Quaranta si sognava un’America con una tv in ogni casa. E così come la diffusione della tv ha cambiato profondamente i costumi e la politica, e il successo dei pc ha poi gettato le basi per il boom di internet e la nascita di migliaia di startup, l’era delle stampanti da ufficio (e da casa) probabilmente darà il la a un’ondata di innovazioni (tecnologiche? organizzative? di altro tipo ancora?) che ora fatichiamo anche solo a immaginare.

Detto questo, aggiungo che a mio modesto parere il futuro della stampa 3D, almeno in Italia e in Europa, non sarà (solo) questo. Sono convinto che potremo vincere questa sfida soltanto puntando sui nostri valori, come ha ben detto Stefano Micelli nel suo “Futuro artigiano”, e come inizia peraltro a trasparire ogni giorno, concretamente, qui nel Nordest dell’Artisan Valley (ma anche nel resto d’Italia). Gli americani hanno deciso di puntare sulla costruzione e commercializzazione di stampanti 3D. Noi italiani dobbiamo fare altro, anche perché pensare di far concorrenza agli statunitensi (o ai giapponesi) su questo terreno è davvero difficile. La domanda reale è: cos’è che rende unici gli italiani?

Rispetto a noi, americani e giapponesi hanno molti più soldi, più know-how e più tecnologia. Noi però abbiamo altre risorse, anche queste difficili da eguagliare: millenni di storia, tanto per cominciare; la creatività; la fantasia; il gusto per il bello e per il ben fatto. In California c’è Googleplex ma a Firenze c’è la cupola del Brunelleschi. E un simile retaggio ci ha lasciato un patrimonio di artigianalità e capacità innovative uniche.

A Verona come a Mestre, a Bolzano come a Bologna stanno nascendo startup e professioni che applicano la stampa 3D a mestieri antichi e saperi tradizionali. Ma lo stesso accade a Firenze e Ancona, a Roma e Napoli, in Puglia e Sicilia. Queste persone stanno, in modo intelligente e lungimirante, modernizzando un autentico vantaggio competitivo italiano. Infatti la stampa 3D non sostituisce il talento e la perizia manuale, ma li integra e amplifica.

Qualche tempo fa il settimanale The Economist, parlando della rivoluzione della stampa 3D, pubblicava un articolo intitolato “Print me a Stradivarius”. Certo, stampare un violino in 3D è senz’altro un’idea stimolante. E c’è chi lo ha fatto sul serio. Ma non credo che un violino 3D, per quanto ben fatto, potrà mai eguagliare il suono di uno Stradivari fatto con il legno dell’abete rosso della Val di Fiemme. Forse noi italiani potremmo partire proprio dal nostro retaggio e dalla nostra storia, per elaborare la via italiana al digital manufacturing. Nella consapevolezza, però, che si tratta di un punto di partenza, non di arrivo.

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