Artigiani
Ecco qui la new economy in salsa italiana
Noi italiani siamo gente strana. Quando abbiamo a che fare con i maggiori fenomeni globali, che siano politici, economici, culturali, sociali, o ci entusiasmiamo o li demonizziamo. O ci aggrappiamo a essi come disperati o li mettiamo al rogo (metaforicamente, chiaro). Per farla breve, anziché confrontarci con i fatti, preferiamo trasformarli in un ammasso di fattoidi, in mode da adottare o rifiutare in maniera netta e piuttosto retorica.
Quando Obama fu eletto per la prima volta alla Casa Bianca, ad esempio, sembrava che l’Italia si fosse trasformata in una specie di blue state mediterraneo (salvo le sacche, piccole ma battagliere, di ultracon tricolori, roba che neanche il Tea Party…). E la crisi economica globale? O è l’apocalisse scatenata da un capitalismo impazzito, o è la necessaria catarsi per purificare i conti degli Stati spreconi e assistenzialisti: in entrambi i casi, le chiavi di lettura da Giorno del Giudizio sembrano più adatte a un concilio dell’Alto Medioevo che a un serio dibattito pubblico.
Stessa storia per la Silicon Valley e il fenomeno delle startup digitali. In Italia ci sono due partiti: i tecno-ghibellini che vedono nel polo californiano una specie di Gerusalemme 2.0 da adorare e imitare, e i neoguelfi passatisti che scrollano la testa e profetizzano la nuova bolla tecno-finanziaria (della serie: “qui in Italia abbiamo già un sacco di rogne, evitiamo di scimmiottare pure gli altri, le app son roba da ragazzini”). Eppure… eppure un po’ di ragione ce l’hanno entrambe le fazioni. Ora cerco di dirvi perché.
Enrico Moretti, economista italiano che insegna nel cuore accademico della Silicon Valley, cioè Berkeley, in un libro pubblicato da Mondadori spiega che in futuro le città e le regioni capaci di creare ricchezza e posti di lavoro saranno quelle che faranno leva su aree come le IT, il nanotech, la robotica, il biotech ecc… In altre parole, la competizione nazionale e globale sarà vinta dai territori più innovativi, come Seattle, Austin, Boston o, appunto, la Silicon Valley.
Ebbene, in Italia non esiste una Silicon Valley. Varie città, come Milano, Pisa, Torino o la stessa Trento (dove ha sede la mia azienda, HSL), vantano poli IT di eccellenza, ma nessuna può davvero paragonarsi alla Silicon Valley, e neppure ai cloni di maggior successo, come la Silicon Wadi in Israele e Bangalore in India. In realtà pure città come Berlino, Dublino o Zurigo fanno molto meglio quanto a startup… Magari se la Olivetti non avesse fatto la fine che ha fatto, se i vari governi di ogni colore avessero avuto un po’ più di lungimiranza, se lo studio delle scienze e della matematica non fosse stato mandato in malora, allora le cose sarebbero potute andare diversamente… ma così non è stato, e pazienza. Non si piange sul latte versato. Se Steve Jobs fosse nato in Italia, alla fine avrebbe aperto un agriturismo.
I microchip li ha inventati un veneto, eppure i giganti informatici parlano tutti inglese. Arduino è una creatura italiana, però Massimo Banzi è più famoso negli USA che qui da noi in Italia. Le nostre università sfornano ingegneri e programmatori ultrabravi, ma che appena possono scappano in Germania, in California o nella lontanissima Australia. Insomma, non è un paese per innovatori. O forse sì, a certe condizioni?
Cercare di battere la Silicon Valley, Bangalore, la Silicon Wadi e Berlino sul loro stesso terreno, cioè le startup digitali e le IT, è fuori discussione. Troppe le occasioni perse, troppo ampio il divario tra noi e loro. Bisogna essere pragmatici e concreti, stare con i piedi per terra. Hanno ragione i neoguelfi passatisti in questo: come loro, neanche io credo che le app siano una grande speranza per l’Italia, perché è vero che i programmatori italiani sono spesso dei campioni, ma in questo campo la palla ce l’hanno americani, indiani e nord-europei.
Comunque non si può stare con le mani in mano e sperare che l’economia italiana si salvi per un qualche miracolo. Secondo me la strada l’ha indicata un economista delle nostre parti che è anche un amico, Stefano Micelli. Quando ho letto il suo libro, Futuro artigiano, ho subito pensato: «Cavolo, questo signore ha davvero capito un sacco di cose!». In Italia abbiamo una lunga tradizione di artigianalità, bellezza, design (anche se magari nel 1500 non si chiamava così). Il paese è tutto disseminato di botteghe, studi, tesori di cultura manuale. Bisogna solo saper valorizzare questo straordinario patrimonio. Come?
Con le nuove tecnologie, da quelle prettamente informatiche a quelle collegate al manifatturiero digitale, come le stampanti 3D e le frese a controllo numerico. È una ricetta che ha funzionato per la mia azienda, la HSL, ma anche per tantissime altre. Sono numerose, infatti, le imprese del Nord-Est che hanno fatto del manifatturiero digitale uno strumento per amplificare il loro potenziale. E infatti negli ultimi tempi, anche su riviste importanti, si inizia a configurare una “Artisan Valley del Nord-Est”. Grazie ai fablab che stanno crescendo come funghi, alle università e scuole che si stanno buttando a capofitto in questa avventura del manifatturiero digitale, a tanti professionisti e imprenditori innovativi, il nostro territorio sta cambiando pelle. Cosa diventerà, non lo so ancora, ma sono pronto a scommettere che sarà un posto molto più innovativo e tech di com’è oggi.
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