Agroalimentare

Nuove regole sul “cibo sano” made in USA, tra scienza e lobby industriali

23 Gennaio 2016

Negli Stati Uniti sono appena state pubblicate le nuove Dietary Guidelines: un documento prodotto dal governo, o più precisamente da USDA (U.S. Departement of Agriculture) e HHS (Departement of Healt and Human Services), e incaricato di tradurre i risultati delle ricerche sulla nutrizione in una serie di consigli dietetici per prevenire le patologie legate all’alimentazione, che a oggi riguardano circa un terzo della popolazione americana.

Le Dietary Guidelines (DG) sono aggiornate ogni cinque anni e hanno ricadute enormi sulle politiche alimentari americane: dalle indicazioni dietetiche dei medici di famiglia alle norme per l’etichettatura dei prodotti alimentari, dai programmi di formazione ai menù delle mense pubbliche e scolastiche. Il volume di interessi economici e politici coinvolti fa sì che queste “linee guida” si siano quasi sempre tradotte nel risultato di una contrattazione tra lobby, più che in un compendio di scienza alimentare.

Le nuove linee guida, che copriranno il quinquennio 2015-2020, descrivono una dieta salutare come una dieta ricca di frutta e verdura; di cereali, meglio se integrali; di latticini a basso contenuto di grassi; di olii e di una varietà di fonti di proteine: pesce, carne, uova, legumi, frutta secca, semi e prodotti a base di soia. Mentre viene consigliato di limitare: alcol (massimo un drink per le donne e due per gli uomini); grassi saturi e trans (sotto il 10% delle calorie giornaliere), zuccheri aggiunti (sotto il 10% delle calorie giornaliere) e sodio (meno di 2300 mg al giorno).

Anche leggendo queste poche raccomandazioni di base, che non hanno niente di sorprendente, emerge uno degli aspetti controversi di queste dietary guidelines, e cioè che quando si suggerisce cosa mangiare viene fatto con parole di uso comune e significato cristallino: più verdure, frutta, cereali integrali ecc. Si parla di cibo, insomma. Mentre quando si tratta di sconsigliare o porre dei limiti, si passa al linguaggio tecnico dei nutrienti: zuccheri aggiunti, grassi saturi e trans, sodio. Scrivere “zuccheri aggiunti” invece di bevande zuccherate o merendine non ha lo stesso potenziale di comprensione, né lo stesso valore politico (ed economico). Così come leggendo “sodio” in pochi penseranno a junk food e pizza, oppure leggendo grassi saturi e trans in pochi si figureranno la carne rossa e lavorata, grande assente di queste linee guida. Il tecnicismo permette di dire senza dire, di assecondare il parere degli esperti senza turbare troppo i sonni della grossa industria alimentare.

Ma al di là delle scelte di linguaggio le Dietary Guidelines di quest’anno promettevano qualcosa di diverso, ragion per cui la vera notizia non è quello che contengono, ma quello che hanno scelto di escludere. Il nuovo report è infatti stato anticipato da un documento di raccomandazioni di un comitato di scienziati e nutrizionisti (il Dietary Guidelines Advisory Committee) chiamato dallo stesso governo americano a dare delle indicazioni preliminari alla stesura ufficiale. Il documento di questi esperti, pubblicato a Febbraio 2015, ha scatenato un aspro dibattito durato mesi tra scienziati, società civile, politici e lobby industriali in merito ad alcune novità che suggeriva di inserire tra le priorità delle nuove DG:

  • una riduzione del consumo di cibi e bevande zuccherate;
  • una riduzione del consumo di carne rossa;
  • l’inclusione della sostenibilità ambientale tra i fondamenti delle nuove raccomandazioni.

Di queste tre cose, l’unica che ha avuto fortuna è quella riguardante lo zucchero, nonostante il camouflage linguistico. La limitazione del consumo di zuccheri è infatti l’unica novità unanimemente considerata un traguardo di queste linee guida. Un traguardo del resto imposto dalle drammatiche statistiche sulle patologie direttamente connesse all’alto consumo di zuccheri nella dieta: diabete e obesità. Il diabete già nel 2012 riguardava il 9,3% della popolazione americana, mentre due terzi degli americani sono obesi o sovrappeso. Le nuove DG consigliano di tenere gli zuccheri aggiunti sotto il 10% dell’apporto calorico giornaliero, il che vuol dire, per una persona che assume circa 2000 calorie al giorno, limitarsi all’equivalente di 12 cucchiaini di zucchero (contro i 22 consumati oggi da un americano medio).

La stessa fortuna non è toccata alla carne e alla sostenibilità: qui il parere degli scienziati non è stato accolto dagli organi politici. Quanto alla carne, il documento del comitato parlava chiaro: “una dieta salutare deve prevedere un minore consumo di carne rossa e processata”. Non è una notizia sensazionale, tutti sanno che un alto consumo di carne non fa bene (il recente verdetto dell’OMS non ha stupito nessuno, anche se ha irritato molti), eppure questa constatazione non è ancora ammessa in un documento ufficiale della pubblica amministrazione.

Quanto alla sostenibilità, il documento degli esperti argomentava: “una dieta sostenibile promuove la salute e il benessere, garantisce l’accesso al cibo alla popolazione attuale e assicura le risorse per le future generazioni (…) Dal momento che il focus delle Dietary Guidelines è portare le abitudini alimentari dei consumatori verso alternative più salutari, è imperativo, in questo contesto, che le nuove abitudini prevedano un minore consumo delle risorse naturali (trad. mia).”

I due aspetti, carne e sostenibilità, sono come si sa strettamente legati, perché la carne consuma più suolo e acqua e produce più emissioni di qualsiasi altra attività umana. Qualche dato di riferimento: l’industria dell’allevamento occupa globalmente il 29% delle terre emerse (escluse quelle ghiacciate), e il 75% delle superfici agricole (fonte Food choice Task Force). Per produrre un pomodoro servono 13 litri d’acqua, per produrre un chilo di carne di manzo ne servono 16.000 (fonte IFAD). L’allevamento è responsabile da solo del 18% delle emissioni di gas serra, più di tutto il settore dei trasporti, che si ferma al 13% (fonte FAO).

Senza contare che tutto questo avviene in un paese, gli Stati Uniti, che è uno dei maggiori consumatori di carne del mondo: un americano mangia ogni anno circa 125 kg di carne (un italiano circa 90 kg, un cinese circa 52 kg).

La possibilità che le DG venissero redatte alla luce di queste informazioni ambientali – che sono di pubblico dominio non certo da ieri – ha immediatamente mobilitato la potente industria della carne, che può contare su molti endorser tra i membri del Congresso americano, grazie ai sostanziosi contributi che assicura loro ogni anno. Nel 2014 l’industria alimentare ha speso circa 10,8 milioni di dollari in contributi a campagne politiche e 6,9 milioni in attività di lobbying sul governo federale. Le pressioni per escludere la sostenibilità dalle DG sono state continue, e si sono tradotte in lettere pubbliche e udienze congressuali da parte di senatori repubblicani, che hanno infine ottenuto lo scopo. (Per ripercorrere e comprendere l’indefessa attività di lobbying: Politico, The Hill, The Atlantic).

Sì, perché nonostante la mobilitazione contraria da parte di molti scienziati e nutrizionisti, che si sono spesi per difendere il parere del comitato di esperti, l’USDA già a Ottobre aveva escluso che la sostenibilità ambientale del cibo venisse presa in considerazione dalle nuove linee guida, con la rocambolesca giustificazione che il tema esulerebbe da considerazioni strettamente legate alla salute delle persone.

Il risultato finale è dunque un’annacquata somma di quello che l’industria è pronta ad accettare del parere degli scienziati, il che prevede di accantonare del tutto il tema della sostenibilità e polverizzare le raccomandazioni sulla carne in piccoli spunti indiretti e astratti, disseminati qua e là nel lunghissimo documento. D’altra parte però, per la prima volta da quando le dietary guidelines esistono, il dibattito è stato lungo e approfondito e ha coinvolto ampiamente i media, la comunità scientifica e la popolazione. E, per la prima volta, esiste ed è consultabile da tutti un documento “ombra” che ha l’autorità di fare da contraltare alle linee guida ufficiali, ma, diversamente da quelle, è scevro da pressioni politiche. Un documento che adesso ha bisogno di essere divulgato e trasformato, dalle quasi 600 pagine accademiche, a una semplice infografica, da esporre in tutte le case degli americani, proprio in mezzo alla tavola apparecchiata.

Qui i link ai due documenti citati: le Dietary Guidelines 2015-2020 e le raccomandazioni dell’Advisory Committee.

 

Twitter @dilettasereni

 

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