Agroalimentare

Latte in polvere nei formaggi: le tribolazioni del made in Italy

9 Luglio 2015

Ieri a Roma la Coldiretti ha manifestato, insieme ad allevatori e produttori, contro la possibile cancellazione del divieto di utilizzare latte in polvere per la produzione di formaggi. Il 28 maggio scorso infatti la Commissione Europea ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia, chiedendo la modifica della legge n. 138 del 1974, che proibisce la detenzione, la produzione e la vendita di prodotti caseari preparati utilizzando latte in polvere (testo della legge). L’Italia è l’unico paese in cui vige questo divieto e l’Europa ci sta di fatto chiedendo di uniformarci alla normativa comunitaria, perché la nostra atipicità viene considerata una violazione alla libera circolazione delle merci all’interno dell’UE.

Il latte in polvere è quel che resta del latte (soprattutto proteine e materia grassa) dopo essere stato sottoposto a un processo industriale di pastorizzazione prima, e di essiccazione poi. Una volta essiccato il latte occupa un volume enormemente minore e può essere trasportato più facilmente e conservato più a lungo. Fare un formaggio utilizzando anche latte in polvere aiuta nella stabilizzazione e standardizzazione dei prodotti, ma al contempo aggiunge al processo produttivo una fase industriale non necessaria, consuma energia e porta ad accentrare la produzione negli stabilimenti industriali che possiedono le macchine di essiccazione. Insomma allontana il cibo dal cibo. Quello che si perde, in nome dell’efficienza, è il latte inteso come alimento complesso, capace di esprimere una territorialità, e non solo come una somma di nutrienti da alterare, conservare, addizionare.

È importante sottolineare che, anche se la procedura di infrazione dovesse andare a buon fine, per l’Italia si tratterebbe di cancellare il divieto e non di imporre l’obbligo di produrre il “formaggio senza latte”, come hanno titolato rumorosamente alcuni articoli sul tema. Inoltre, tutti i prodotti DOP e IGP rimarrebbero comunque protetti da disciplinari dedicati che continueranno a escludere il latte in polvere come ingrediente. Detto questo, resta il fatto che la modifica richiesta all’Italia è un adeguamento al ribasso dal punto di vista della qualità, che sottrarrebbe specificità al made in Italy.

Beppe Casolo, vice-presidente di Onaf (Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Formaggi), raggiunto al telefono, dichiara che “questa azione della Commissione Europea è dettata principalmente da ragioni economiche, legate alla pressione delle lobby industriali; ed è per questo che la Francia non è a braccetto dell’Italia in questa battaglia pur avendo da difendere una tipicità casearia paragonabile: perché è francese la proprietà di Lactalis e Danone, multinazionali che producono ed esportano prodotti realizzati con l’aggiunta di latte in polvere, che hanno già prevalso sulla tutela di un principio di qualità”. Inoltre, continua Casolo “paesi come la Francia, ma anche Germania e Polonia, hanno delle eccedenze nella produzione di latte, smaltite anche attraverso la conservazione in polvere, mentre l’Italia deve al contrario basarsi molto sulle importazioni, in un mercato peraltro ormai totalmente liberalizzato dall’abbattimento delle quote latte”. Il latte in polvere dunque permette e anzi incoraggia una sovrapproduzione di latte che, considerata dal più ampio punto di vista della sostenibilità ambientale, sarebbe tutto meno che da incoraggiare.

Di fronte a un’eventuale revisione della legge italiana, i diversi attori del panorama lattiero caseario ne verrebbero toccati in misura molto diversa. “La grande industria casearia avrà tutto l’interesse ad aggiungere il latte in polvere” prosegue Casolo, “ma dal punto di vista della sostanza non sarebbe una cosa così sconvolgente, visto che in Italia per fare i formaggi è già ammesso latte che ha subìto numerosi processi termici e di filtrazione. Sarebbe molto difficile anche per il consumatore riuscire a percepire la differenza da un punto di vista sensoriale”. In questo scenario rischiano però di diventare meno competitivi, sotto l’aspetto del prezzo, i produttori che non utilizzano latte in polvere – per disciplinare (ad esempio i DOP e IGP) o per libera scelta – e che si troveranno in concorrenza diretta con chi lo usa. Ma “i più minacciati” precisa Casolo “saranno allevatori e produttori di latte: questi non sarebbero minimamente tutelati e rischierebbero di veder diminuire la loro produzione, non potendo competere con i prezzi e la conservabilità del latte in polvere” (prodotto per gran parte all’estero, ndr).

Meno toccato dalla vicenda è tutto il mondo della produzione artigianale d’eccellenza, DOP e non DOP, per il quale, a prescindere dai disciplinari, fare il formaggio è e resterà un’attività fortemente connessa al territorio. È questo che traspare dalle parole di Maria Chiara Onida, produttrice dell’Oltrepò Pavese che mi racconta: “la nostra forza è quella di poterci fare il latte da soli e il latte lo fai nell’alimentazione degli animali, nella cura e pulizia delle stalle ecc. Quello che viene dopo: coagulazione, caseificazione e stagionatura, sono l’evoluzione naturale del tuo latte, con tutte le variabili connesse al fatto di non controllare artificialmente il processo. Ma è in questo modo che i formaggi acquisiscono la loro tipicità”. Produttori di questo tipo potranno essere delusi dal generale abbassamento degli standard qualitativi del mondo del formaggio, ma saranno meno spaventati in senso commerciale, perché non incrociano il mondo industriale né nella filosofia né nei canali distributivi.

Eppure il piano “ideale”, quello della delusione, non conta meno di quello commerciale, perché alla fine una parte importante di quello che si vende è spesso intangibile e legata al portato culturale che sta intorno al prodotto. Sdoganare il latte disidratato sposta il piano del discorso dall’alimento al nutrimento: se il latte legittima un dialettica sul gusto “è buono/non è buono”, il latte in polvere non può attingere a questo piano e sposta la pertinenza sull’apporto nutritivo “è nutriente/non lo è abbastanza”. In tal senso, questa vicenda incarna bene l’opposizione più generale tra un’idea di cibo improntata all’esperienza (verdura, carne, pastasciutta) e un’idea di cibo improntata alla scomposizione biochimica (vitamine, grassi, proteine, carboidrati). Questa opposizione, che certo non nasce e non muore col “formaggio senza latte”, rappresenta bene la complessità del campo semantico che si sviluppa intorno al cibo, oltre che la posta in gioco delle strategie di food marketing.

Infine, si parla tanto di made in Italy, così tanto che rischia di diventare una chimera. Ecco, questa vicenda ce lo spiega bene cosa vuol dire in concreto made in Italy: per esempio vuol dire che solo da noi tutti i produttori di formaggio, grandi o piccoli, artigianali o industriali, sbrigativi o accurati, oggi sono obbligati a usare il latte per fare i formaggi senza ricorrere a scorciatoie. È una cosa che davamo per scontata ma che nell’orizzonte internazionale della produzione industriale di cibo non lo è affatto e che per questa ragione dovremo tenerci stretta. Peccato questa lezione ci arrivi proprio nel momento in cui la specificità italiana viene messa in discussione, a vantaggio della grande industria casearia.

Una pezza la si può mettere agendo sulle etichette e il ministro Martina ha già dato segnali in questo senso. Al momento non c’è una regolamentazione delle etichette che obbliga a specificare natura e provenienza degli ingredienti di un formaggio: se contiene o meno latte in polvere, che tipo di caglio viene usato e da dove arriva. Cercando di vedere il problema come un’opportunità, l’eventuale modifica della legge 138/74 potrebbe essere un pretesto per ricostruire questa trasparenza “a valle” e distinguere preparati industriali da materie prime pure, ingredienti autoctoni da ingredienti di importazione. Certo è che in questo clima di “adeguamento al ribasso” chi ha davvero a cuore la trasparenza di quello che mangia dovrà accettare l’idea che scegliere il cibo è un’operazione lenta: che si tratti di conoscere e ascoltare un produttore o di decifrare un’etichetta. La vera distinzione tra chi mangia cibo e chi nutrienti biochimici si deciderà tutta qui.

 

@dilettasereni

 

La foto di copertina è tratta dal profilo Twitter della Coldiretti.

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