Agroalimentare
‘La Terra mi Tiene’, il documentario sul cibo che ci interroga sul futuro
Se il cibo è qualcosa di molto più complesso del semplice carburante di cui abbiamo stretta necessità per vivere, forse dovremmo prestare maggiore attenzione alla sua provenienza e «ridare dignità a chi lo produce e a chi lo raccoglie». Sara Manisera, giornalista, autrice e documentarista, è partita da queste semplici considerazioni per un viaggio nelle aree interne del Cilento dove ha seguito un chicco di grano dalla semina al momento in cui arriva sulle nostre tavole. Ne è nato un documentario intitolato ‘La Terra mi Tiene’ di 52 minuti, realizzato insieme alla collega videographer/DOP Arianna Pagani, in grado di sintetizzare una serie di interrogativi sul nostro modo di vivere, sul modello di sviluppo, sull’agricoltura e sul rapporto con la terra.
Non poteva essere altrimenti affrontando un argomento, il cibo, che lega senza soluzione di continuità il corpo alla psiche determinando la nostra personalità in una dimensione simbolica etica e sociale indissolubile e ha tenuto impegnati i filosofi fin dall’antichità, da Ippocrate (‘Fa che il Cibo sia la tua Medicina e che la Medicina sia il tuo Cibo’) a Feuerbach (‘L’uomo è ciò che mangia’), da Epicuro (‘Principio e radice di ogni bene è il piacere del ventre’) a Sartre che indicava la mediazione culturale come strumento nella scelta del cibo.
Manisera, originaria dell’entroterra della provincia di Salerno, ha voluto incrociare due storie rappresentative di due epoche differenti, ma senza metterle in antitesi. Quella di Teresa Vallone, emigrata in Germania più di cinquant’anni fa con il preciso intento di migliorare le condizioni di vita sue e dei propri figli. Accanto a una partenza del passato c’è un ritorno nel presente ed è quello di Ivan Di Palma, un contadino, laureato in filosofia, che ha scelto di ritornare nella sua terra natale ad Atena Lucana, nel Parco Nazionale del Cilento, Alburni e Vallo di Diano, per dedicarsi alla semina dei ‘grani del futuro’. L’opera, per come è stata concepita, diventa una riflessione a tutto campo su vita, economia, disuguaglianze e futuro.
Incuriosito dal progetto, come dal ragguardevole curriculum professionale a dispetto della giovane età, ho posto qualche domanda a Sara.
D Da cosa muove il documentario?
R L’idea del documentario nasce ad aprile 2020 in piena pandemia. In quei mesi, insieme ad Arianna Pagani, stavo lavorando a un progetto di reportage per Millennium (FQ) sull’agricoltura industriale, la grande distribuzione organizzata, lo sfruttamento dei braccianti e la crisi climatica in Piemonte, una regione dove si produce moltissima frutta, esportata in tutto il mondo. Nonostante i successi dell’agro-industria, anche lì abbiamo trovato sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente. Parlando con gli imprenditori agricoli, abbiamo compreso le storture e le contraddizioni di un sistema che ha trasformato progressivamente il cibo in una commodity, un prodotto standardizzato. “La logica dietro la Grande distribuzione organizzata (GDO) è l’esasperazione dell’estetica”, ci ha raccontato Michele Ponso, proprietario di un’azienda che gestisce 120 ettari, con un fatturato di 10 milioni di euro. “Perché devo cerare una mela? Perché devo buttare via una pesca o una mela se ha una macchiolina o una puntura di insetto? È ovvio, più utilizzi la chimica e i fitofarmaci più abbatti le percentuali di frutta da buttare, quindi produci di più. Se tratti meno, avrai una maggior percentuale di scarto ma così rischi di non stare sul mercato alle condizioni di oggi, perché la frutta te la pagano troppo poco o la comprano da altri Paesi, dove costa meno”. È questo uno dei meccanismi – insieme a molte altre pratiche sleali – che porta la GDO a schiacciare i produttori agricoli, che a loro volta comprimono i costi sui braccianti.
Abbiamo visitato diverse aziende e intervistato numerosi imprenditori, braccianti e piccoli contadini. Uno di loro ci ha detto: “Io non produco in serie perché in natura non c’è niente di uguale ma ciò che vediamo ogni giorno nel supermercato è un prodotto omologato, a costi sempre più bassi. Questi prezzi, però, hanno delle ripercussioni su tutti. Le piante si ammalano e diventano sempre più deboli, i parassiti più resistenti, la biodiversità viene uccisa. La cosa assurda è che non ci rendiamo conto che, senza insetti, la frutta non esce più. Ma chi paga il costo di questo sistema? I lavoratori e l’ambiente”.
D Perché hai scelto una storia in parte comune, sono migliaia le persone che pur avendo formazione diversa, si dedicano all’agricoltura in Italia, in parte marginale poiché per quanto il fenomeno sia in crescita l’economia e il lavoro nel paese restano garantiti da manifattura e servizi?
R Se è vero che questo tipo di agricoltura e il sistema alimentare connesso – cioè il complesso di processi che va dalla produzione delle materie prime fino alla distribuzione – ha permesso a noi consumatori di accedere a prodotti tutto l’anno e a basso prezzo, è altrettanto innegabile che questo sistema ha degli enormi costi ambientali e sociali. Le logiche puramente economiche di mercato e della filiera lunga impongono, infatti, costi sociali altissimi che ricadono, spesso, sui più vulnerabili, i piccoli produttori e i braccianti stagionali. Ai costi sociali, si aggiungono altri costi mai calcolati: quelli ambientali e quelli sulla salute. “Quasi un miliardo di persone soffre la fame, quasi due miliardi mangiano troppo e male; la frequenza delle malattie non trasmissibili, come le patologie cardiovascolari e il diabete, è in aumento e le diete malsane causano ogni anno fino a undici milioni di decessi prematuri”, si legge nel rapporto ‘The 21st-Century Great Food Transformation’ pubblicato su The Lancet nel 2019.
Basti pensare che ogni paziente affetto da diabete “costa al sistema sanitario nazionale 2589 euro l’anno e che le terapie per il diabete costano il 9 per cento del bilancio ovvero 8.26 miliardi”, si legge invece nel libro di Stefania Grando e Salvatore Ceccarelli ‘Seminare il futuro’. La ricerca del The Lancet afferma, inoltre, che questo sistema alimentare “contribuisce in modo notevole all’emergenza climatica e accelera il processo di erosione della biodiversità naturale”. Anche il report dell’Agenzia europea per l’ambiente del 2019 ‘Climate change adaptation in the agricultural sector in Europe’ sottolinea che proprio questo tipo di agricoltura, praticata in modo intensiva e industriale, è tra le cause della crisi climatica – “oltre il 10 per cento delle emissioni di gas serra proviene dai campi europei”, si legge nel report – e che entro il 2050 potremmo assistere a una riduzione del 50 per cento della produzione agricola in Italia e nel Mediterraneo.
Al ritorno da questo reportage, ho ripensato a un incontro che avevo fatto qualche anno fa con Ivan di Palma, un filosofo e un contadino che insieme a un gruppo di sociologi, imprenditori e contadini ha messo in piedi una cooperativa sociale costruita attorno ai grani nelle aree interne del Cilento, in Campania. Un modello di economia civile e di agricoltura sociale che ripensa al modo di fare agricoltura oggi, al modo in cui consumiamo e facciamo il cibo. Ho pensato che la loro storia fosse importante da raccontare perché loro non rappresentano solo un gruppo di persone che è tornato a coltivare la terra ma la loro storia dimostra che si può immaginare, costruire e praticare un’altra economia e agricoltura che tiene insieme la sostenibilità economica e ambientale. “Che Terra lasceremo ai nostri figli e figlie? È questa la domanda dietro a La Terra Mi Tiene è un documentario lungo un anno, che segue il ciclo del grano, dalla semina alla mietitura, e che vuole offrire una riflessione sul cibo, sulla salute, sull’economia e sull’agricoltura che pratichiamo.
D Professionalmente sei molto attenta alle storie dei più deboli, si tratti del Medio Oriente, dell’Europa o dell’Italia. Non è che il sotto testo del tuo lavoro in realtà racconti di una sconfitta?
R Da diversi anni mi occupo di giovani, di lotte, di storie di più “deboli” in Medio Oriente e in Italia. In questi anni, ho sempre cercato e raccontato storie che potessero offrire anche uno sguardo di cambiamento, di impegno e di lotta. “La Terra mi Tiene” è un documentario che non racconta né una sconfitta, né una vittoria ma racconta la storia di chi è emigrato nel passato e di chi è tornato a curare i suoli e la Terra. La protagonista, Teresa Vallone, racconta esattamente questo. Lei, come milioni di italiani, è andata via proprio per le terribili condizioni in cui si viveva nel Meridione e per migliorare le condizioni di vita dei propri figli. Non è una sconfitta, è la storia che è andata così e probabilmente fra 50 anni racconteremo di una generazione che è tornata alla terra, a loro volta, per migliorare le condizioni di vita.
D C’è forse l’emergere della disillusione sulla possibilità di cambiare il mondo o anche solo di affrontare la complessità e il rifugio in un microcosmo dove è possibile esercitare forme di controllo inattuabili in contesti diversi? Una sorta di rinuncia alla socialità complessa della città in favore dell’individualismo da esercitare in campagna tra poche persone fidate e conosciute.
R Più che di individualismo, al contrario, parlerei della costruzione di una comunità, in una società che è completamente disgregata dove anche i paesi più piccoli delle aree interne sono “spaesati”. Ivan fa parte di una cooperativa sociale che include diverse persone e, pur non muovendo milioni di euro, negli ultimi anni è cresciuta perché le persone sentono di appartenere a una comunità.
D E non sono questi i semi che portano alle società chiuse?
R Al contrario, credo che questi siano proprio semi che possono riattivare legami comunitari andati completamente persi.
D Tuttavia il quadretto bucolico non mi convince. Tocca corde emozionali sensibili, ma come è possibile o solo sostenibile pensare di sfamare 8 miliardi di persone senza l’agricoltura industriale?
R È una questione centrale quella che poni tu ma come scrivevo sopra, alla base della nostra spesa c’è un tipo di agricoltura, quella praticata in modo industriale, che si basa sull’alto utilizzo di prodotti chimici e, pur assicurando produzioni ai massimi livelli quantitativi di sempre, non è resiliente, cioè non è capace di assorbire senza danni le differenze di piovosità e temperatura che si verificano da un anno all’altro, e quindi è molto vulnerabile alla crisi climatica. Per aumentare la produttività nel breve periodo, si è ricorso a un uso massiccio di fertilizzanti e di concimazioni chimiche nei terreni che, nel lungo periodo, hanno impoverito i suoli di sostanza organica, rendendoli sempre più aridi e meno fertili. Inoltre il rapporto ‘Preventing the next pandemic Zoonotic diseases and how to break the chain of transmission’ dell’agenzia dell’Onu per l’ambiente (UNEP) e dell’International Livestock Research Institute, identifica tra le sette tendenze che stanno spingendo verso un aumento delle zoonosi l’agricoltura intensiva e non sostenibile. “La scienza è chiara: se continuiamo a sfruttare la fauna selvatica e a distruggere i nostri ecosistemi, allora possiamo aspettarci di vedere un flusso costante di queste malattie saltare dagli animali all’uomo negli anni a venire”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’UNEP Inger Andersen. “Per prevenire future epidemie, dobbiamo diventare molto più attenti a proteggere il nostro ambiente naturale”.
Pertanto, sì l’agricoltura industriale è centrale ma va ripensata, vanno date ‘regole’ su alcune questioni come: la questione degli sprechi, la questione dell’estetica della frutta e verdura richiesta dalla GDO, le aste al doppio ribasso, l’uso massiccio di anti-crittogamici e pesticidi (guarda in Francia cosa sta succedendo a riguardo).
D Parliamo di come hai organizzato l’opera con Arianna Pagani. Non è la prima volta che lavorate insieme, giusto?
R Esatto, lavoriamo insieme da 6 anni e abbiamo realizzato documentari per ARTE e servizi televisivi per la tv svizzera, RAI e altre testate nazionali e internazionali. Facciamo anche parte del collettivo FADA, che mette insieme giornalisti/e, fotografi/e e videomaker. Questo è un progetto sicuramente più ambizioso perché è un lungometraggio (52 minuti) e perché è stato realizzato e prodotto interamente da noi.
D La scelta del finanziamento dal basso con il crowdfunding è stata fatta in ottica di aumentare la diffusione?
R Il crowdfunding e due finanziamenti dal Parco Nazionale del Cilento, Alburni e Vallo di Diano e dalla Fondazione MIDA ci stanno aiutando a coprire tutte le spese di post produzione. Abbiamo scelto il crowdfunding sempre nell’ottica di costruire una comunità e una rete con le persone che negli anni ci hanno seguite e appoggiate e questo potrà aiutare il documentario anche nella fase di promozione.
Il documentario, di cui è possibile apprezzare uno spezzone qui sotto è in fase di montaggio
Scheda Tecnica
Regia: Sara Manisera
Soggetto e sceneggiatura: Sara Manisera
Autrici: Sara Manisera e Arianna Pagani
Fotografia: Arianna Pagani
Montaggio: Mattia Biancucci
Sound design: Alessio Festuccia
Musiche originali: Luigi Ranieri Gargano
Illustrazioni e grafica: Maria Tortorella
Durata: 52′
Luogo: Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni
Anno di produzione: 2020/2021
Anno di distribuzione: 2022
Formato: DCP 2K
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