Agroalimentare
Il consumo tra felicità e allarmi
“Vado tutti i giorni al mercato per vedere di quante cose non ho bisogno”, diceva Socrate secondo Diogene Laerzio. Anch’io. Non sono un consumatore seriale, ma mi piace che il mercato ci sia. Ho patito troppo la fame da piccolo per rinunciare sprezzantemente anche a questo mercato drogato di carni lavorate (di cui faccio un uso parco e non ideologico).
Guardando fuori di me e considerando la storia, ricordo che l’Italia dopo oltre quattro secoli di depressione economica riuscì ad agguantare negli anni Sessanta del secolo/millennio scorsi, livelli di consumo e di eudemonismo (per usare la vecchia parola greca, ossia di perseguimento cosciente di felicità, materiale, beninteso) di tipo americano, il prototipo della cosiddetta affluent society. Contestualmente, nell’Italia dei primi festosi Caroselli televisivi, si alzarono alti lai e invettive contro l’orrenda “società dei consumi” da parte di predicatori religiosi e intellettuali critici (Pasolini in prima fila).
Non s’era finito di deglutire gli ultimi bocconcini di panettone milanese (che con la sua forza industriale aveva “inventato una tradizione” fino ad allora inesistente) che severi censori predicarono e predissero terribili disastri antropologici. Fu invece un breve momento di felicità di massa quell’Italia dei panettoni, dei pavesini, dei formaggini MIO, degli autogrill e delle canzonette in spiaggia, l’unico evo in cui il futuro sembrava avere ancora un avvenire. Negli anni Settanta una minoranza cosciente di intellettuali internazionalisti si staccò dalle masse e procedette ad una emancipazione trasgressiva elitaria e costosa, “liberal libertaria”, del mangiar bene, del mangiar sano, del mangiare ecologico (“Il gambero rosso” e le tematiche gastronomiche nacquero dentro il “Manifesto”, e da quell’ambito gastrointestinale-ideologico verrà fuori anche slow food), e si lanciarono nuovi stili di alimentazione legati anche alle esperienze, metà trasgressive metà antagoniste, orientali (vedi i cibi macrobiotici), lasciando che i poveri si ingozzassero con i grassi insaturi.
Ma fu sempre un progresso rispetto alla penuria atavica degli ultimi secoli, quando ancora ai tempi di Cesare Pavese (“La luna e i falò”), c’era tanta fame nelle campagne che i cani “abbaiavano alla luna scambiandola per polenta”. Fu il nostro edonismo immaginativo autonomo di massa (C. Campbell) quel consumo per tutti, prima che le masse già sazie e anche un po’ disperate guardassero spontaneamente in tralice sia le carni rosse che bianche, gli insaccati e le nutelle e cadessero in isteria per l’olio di palma e le anatre ingozzate per il fois gras, mentre le notizie dei telegiornali suonavano già la campanella dei nuovi rischi di alimentazione.
Tutto ciò in un Paese in cui dopotutto (anche con i cibi cancerogeni) l’età media si era alzata verticalmente, i “dannati della terra” vi accorrevano da tutto il mondo per morire come si moriva da noi, e i governi adottavano le “aspettative di vita” per fottere le masse in attesa di pensione.
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