Agricoltura

Gli italiani rispondono all’appello dei braccianti: donati oltre 110mila euro

14 Aprile 2020

Erano appena dieci giorni fa quando un gruppo di braccianti agricoli, italiani e stranieri, organizzati dall’Unione sindacale di base, sotto la guida del sindacalista Aboubakar Soumahoro, aveva lanciato un appello alla generosità degli italiani. A causa delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria e del lavoro in nero e “in grigio” che dilaga nelle campagne, molti sono rimasti senza lavoro e anche senza possibilità di accesso ai sussidi. «Ci dicono, giustamente e con ragione, di stare chiusi in casa per sconfiggere questo nemico invisibile. Ma se noi non usciamo non faremo mangiare tante persone tra cui i medici e gli infermieri in trincea. Lavoriamo senza guanti, senza mascherine e senza distanziamento. Per molti di noi non ci sono sussidi, congedi o cassa integrazione. Per noi ci sono solo gli stenti del duro lavoro… e ora anche il terrore del coronavirus».

Da qui l’idea di una raccolta fondi, attraverso il sito GoFundMe, “Portiamo il cibo a tavola ma abbiamo fame”, per acquistare cibo, beni di prima necessità e presidi medici e sanitari per la sicurezza dei lavoratori della terra, così da poter riprendere a lavorare. L’obiettivo iniziale era di 20mila euro, superato dopo pochi giorni. Una risposta così generosa che gli organizzatori forse non si aspettavano. Così l’asticella è stata alzata, puntando a un traguardo più ambizioso, quello dei 100mila euro. Adesso anche questo target è stato superato (al momento in cui pubblichiamo questo articolo sono quasi 111mila euro arrivati da 3.200 donatori), e il nuovo obiettivo è di 150mila euro. Somme certo che possono far sorridere rispetto alle cifre milionarie arrivate alla Protezione civile e alle altre grandi organizzazioni, ma che testimoniano comunque una sensibilità della popolazione italiana verso chi fa arrivare ogni giorno frutta e verdura fresca sulle nostre tavole, lavorando in condizioni difficili, abbruttenti e di fatto tollerate nell’indifferenza generale, con o senza epidemia sanitaria.

Questi lavoratori hanno lanciato anche una petizione rivolta al presidente del consiglio Conte, oltre alla raccolta fondi, in cui chiedono diritti, un salario dignitoso, la regolarizzazione per uscire dall’invisibilità, un codice etico pubblico per garantire ai consumatori un cibo sano e per tutelare il loro lavoro e quello dei contadini e degli agricoltori.

Ne parliamo qui con Aboubakar Soumahoro, da anni impegnato nella lotta contro lo sfruttamento e il caporalato. Laureato in Sociologia all’Università Federico II di Napoli, è tra i fondatori della Coalizione Internazionale Sans-Papiers, Migranti e Rifugiati (CISPM). Nel suo ultimo libro, “Umanità in rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità”, racconta la condizione dei braccianti che lavorano nella filiera produttiva agroalimentare e che sono sottoposti a continue violazioni dei diritti umani. E non si tratta solo di migranti ma anche di italiani, perché «laddove qualcuno dice prima gli italiani, noi diciamo prima gli essere umani».

Com’è nata l’idea della raccolta fondi su GoFundMe?

Nasce da un momento particolare che vede colpita l’intera umanità da questo nemico invisibile che si è abbattuto su tutti noi e contemporaneamente ha trovato un contesto già preesistente con le sue caratteristiche, con le sue contraddizioni anche strutturali per certi versi, quello della filiera del cibo. Nasce direttamente lì, c’è un noi che vive condizioni di abbruttimento quotidiano. Questo noi collettivo e relazionale si è rivolto all’intera comunità.

La risposta all’appello per il momento è stata molto positiva. Sono stati raccolti molti più soldi di quelli fissati come obiettivo da raggiungere. Li avete già utilizzati in qualche modo? 

I soldi servono e serviranno per portare cibo e portare diritti. I primi generi che abbiamo distribuito l’altro giorno provengono dalla raccolta ed è questo l’obiettivo, portare un pasto non solo nel foggiano ma dove se ne registrerà la necessità, quindi condividere.

Ad oggi com’è la situazione dei braccianti?

La situazione è drammatica. Il Covid_19 si abbatte su un corpo socialmente economicamente dal punto di vista delle diseguaglianze e dello sfruttamento già preesistente. È uno degli ambiti di lavoro dove la produzione del cibo viaggia con livelli arcaici di sfruttamento che hanno a che fare non solo con la condizione dei braccianti stessi ma anche con lo strapotere dei grandi monopoli ai danni degli agricoltori, dei contadini e della qualità stessa del cibo che arriva sulle tavole. Quel cibo è un cibo sano quando dietro tutta la lavorazione vi è il rispetto dei diritti dei lavoratori e vi è il rispetto anche della qualità stessa del cibo, come per esempio delle sostanze che vengono poi usate. Quanto stiamo costruendo è un percorso, un cammino, insieme anche a tutti coloro che ci  sostengono, rispetto a una situazione drammatica che si verifica all’interno della filiera del cibo. Non parliamo solo di quelli che vivono nelle baraccopoli, ma anche dei lavoratori che si occupano della logistica, del trasporto, della trasformazione, le cassiere, i riders che continuano ad affrontare i rischi andando nelle città a consegnare cibo porta a porta. La nostra idea è rendere lo stesso consumatore consapevole di quanto in realtà c’è di impegno, sudore, fatica, negazione di diritti dietro ai prodotti consumati.

Un bracciante quanto viene pagato oggi?

Ci sono livelli generali. In agricoltura ci sono i contratti provinciali che variano da una provincia ad un’altra. Ci sono province dove la paga giornaliera lorda è intorno ai 54, 56 euro. Questo livello generale se andiamo a confrontarlo con quanto realmente percepisce un lavoratore viene fuori un quadro drammatico. Se il contratto stabilisce che un lavoratore agricolo percepisce 54 euro lordi al giorno, questi 54 euro devo far riferimento a determinati parametri. La giornata lavorativa ordinaria è di sei ore e la settimana di sei giorni. Noi ritroviamo lavoratori che sul campo lavorano 12 ore al giorno, quindi il doppio e percepiscono la metà dei 54 euro e non gli vengono pagati gli straordinari, neanche i festivi.

Molti lavoratori lavoreranno peraltro in nero…

Sì, ma oltre a questo c’è quello che io chiamo grigio, vale a dire dei lavoratori ai quali  vengono assegnate delle giornate, quando il datore di lavoro fa la comunicazione all’Inps comunica dieci giornate che di fatto non sono dieci, sono ben venti giornate e il lavoratore si ritrova anche a non poter avere la disoccupazione agricola perché le giornate comunicate sono sempre meno. Tutto questo insieme di cose impoverisce i lavoratori, e non ho parlato di italiani o migranti, perché qua il tema vero è che c’è uno sfruttamento che non guarda che tipo di carta d’identità e documenti hai in tasca, sfrutta perché c’è vulnerabilità. Poi ci sono le normative sull’immigrazione che diventano altri strumenti di ricattabilità e abbassamento del livello di autotutela. Quando il contratto di lavoro è subordinato al permesso di soggiorno è chiaro che il livello di contrattazione del lavoratore che viene sfruttato è pari a zero. Il lavoratore si trova a dover accettare determinate condizioni, come lavorare il doppio, altrimenti il contratto non si rinnova, e quindi rischia di perdere il permesso di soggiorno. Le norme sull’immigrazione sono norme anche sul mercato del lavoro e vanno a colpire un segmento circoscritto per poi abbattersi sull’insieme della classe operaia.

Da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria che tipo di problematiche sono subentrate in più?

Il distanziamento sociale come si fa a garantirlo in luoghi di promiscuità dove mancano perfino i servizi igienici sanitari? Dove manca l’accesso alla cura, dove non c’è acqua potabile, dove per lavarsi manca l’acqua? E le stesse braccia sono quelle che si svegliano alla mattina per andare a spaccarsi la schiena nei campi per salari irrisori. A Rosarno, dopo dieci anni dalla lotta dei braccianti e c’era ancora Maroni ministro, non è cambiato ancora nulla. Vivono nelle baraccopoli, tra le lamiere, nei tuguri. Di questo parliamo. Eppure siamo uno dei maggiori paesi produttori di agrumi. Ma quegli agrumi da dove partono? Perché i lavoratori sono costretti a vivere in quelle condizioni? Perché ogni volta che parliamo di diritti si salta sul livello della visione lombrosiana della filiera agricola dicendo che la colpa è tutta dei caporali? Il caporale è un albero dentro la foresta. La foresta è fatta dalla gdo (grande distribuzione organizzata, ndr) e da tanti altri  soggetti protagonisti che non mettono piede nei campi però decidono sulla pelle di questi lavoratori. Oggi questi grandi monopoli, i latifondisti del 900, hanno caratteristiche nuove dentro l’era dell’economia digitale.

Quali sono queste caratteristiche? 

Chi è che decide i prezzi al contadino, all’agricoltore, che si ritrova costretto a dover stare alle regole di questi decisori? Perché di questo non se ne parla? Perché l’agricoltura di prossimità oggi viene colpita? Perché non si vuole affrontare il tema della regolarizzazione degli invisibili della filiera agricola? Altro che essere narrazione giornalistica ma bisogna agire. Cosa c’è voluto ad assumere un decreto per confinare le persone? Qui stiamo parlando di persone che sono confinate da anni. Oggi non c’è più il confinamento selettivo ed è generale ma dentro questo c’è una grande discriminazione.

Voglio lanciare attraverso il vostro giornale un altro ennesimo appello al governo: basta dire che manca la manodopera. La verità è che non è manca la manodopera mancano i diritti nella filiera agricola. Fate questo benedetto decreto, regolarizzate i lavoratori e rilasciate un permesso di soggiorno a tutti gli invisibili, soprattutto sapendo che la pandemia, che è un nemico invisibile, colpisce tutti e bisogna tutelare tutti, è un dovere di Stato e non si fa certo portando le ruspe della disumanità laddove quelle stesse ruspe hanno lasciato soltanto macerie. Bisogna portare diritti, rivalorizzare le zone rurali.

Potranno cambiare in meglio le regole di ingaggio per i braccianti o ci porteremo avanti questa situazione ancora per anni?

Noi abbiamo lottato per tanti anni affinché fosse istituito un tavolo sulla filiera agricola. Questo tavolo è nato solo quest’anno. Per la prima volta tutti, organizzazioni datoriali, sindacati, i vari ministeri si sono seduti intorno a un tavolo ma manca ancora un soggetto, e cioè la gdo. La gdo si deve sedere a quel tavolo. Perché il nodo vero è: chi decide i prezzi dei prodotti? Chi ha la titolarità dei brevetti? Chi decide se un prodotto è biologico o meno? Qual è il coordinamento? Tutti devono sedersi e discutere e stabilire che i finanziamenti comunitari della politica agricola comune abbiano una condizionabilità. Tu hai accesso a quei finanziamenti se rispetti i diritti contrattuali, previdenziali, di sicurezza sul lavoro e va anche stabilita una distribuzione equa dell’accesso a quei finanziamenti. Non è possibile che ci siano dei monopoli anche per l’accesso a questi fondi. Questi sono i temi veri da affrontare se davvero vogliamo creare un processo di trasformazione all’interno della filiera del cibo. E laddove qualcuno dice prima gli italiani, noi diciamo prima gli essere umani.


Aboubakar Soumahoro, sindacalista (Usb)

 

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