Agricoltura
Caporalato, quella denuncia inascoltata di inizi giugno
I morti di caporalato in Puglia erano stati, in un certo, annunciati. Per questo indigna ancora di più leggere oggi, dopo i recenti avvenimenti, con braccianti morti per una paga di due euro all’ora, il testo dell’interrogazione a risposta scritta che la deputata di Sel, Marisa Nicchi, presentò l’11 giugno scorso ai ministri del Lavoro e delle politiche sociali, dell’Interno e della Salute.
La parlamentare di Sinistra ecologia e libertà delineava bene il quadro del fenomeno partendo dalla denuncia della Flai, il sindacato dei lavoratori dell’agroalimentare della Cgil Puglia e citando alcune fonti di stampa che non avevano mai distratto l’attenzione da quello che accadeva in una regione che qualcuno, tempo fa, definì la California di Italia (il supermanager Franco Tatò, frequentatore assiduo però solo dei più esclusivi resort nel Tacco d’Italia, e non certo dei vigneti all’alba).
“Da aprile a settembre”, denunciava la Nicchi, “centinaia di grossi pullman si spostano carichi di lavoratrici tra le province di Brindisi, Taranto e Bari per la stagione delle fragole, delle ciliegie e dell’uva da tavola. Grottaglie, Francavilla Fontana, Villa Castelli, Monteiasi, Carosino, sono solo alcuni dei nomi della geografia del caporalato italiano che sfrutta le donne. Il nome del caporale è scritto in grande, stampato sulla fiancata dei bus, insieme al numero di cellulare”.
“II potere del caporale si misura dal numero di pullman che possiede”, proseguiva il testo dell’interrogazione parlamentare, “perché questo è indice anche della quantità di lavoratori che riesce a controllare. Si va dalle cinquanta alle oltre 200 persone. Il caporale prende dall’azienda circa 10 euro a donna e sui grandi numeri guadagna migliaia di euro a giornata”. Involontariamente profetica riguardo a quella che sarebbe stata la morte di Paola Clemente, la bracciante 49enne di San Giorgio Jonico della quale la magistratura ha disposto la riesumazione della salma per l’autopsia, la Nicchi, rifacendosi a inchieste giornalistiche, così descriveva con dovizia di particolari l’organizzazione del business, al quale l’intervento di mediazione di agenzie di lavoro interinale contribuisce ora a dare una parvenza di legalità.
“I pullman percorrono quasi cento chilometri, dalla Puglia fino alle aziende agricole che producono fragole nel Metapontino, tra Pisticci, Policoro e Scanzano Jonico, in provincia di Matera. Questi proprietari conferiscono il prodotto a dei consorzi di commercianti con sede nel nord Italia che hanno magazzini in loco. L’intermediario prende una percentuale variabile, almeno del 2 percento, poi si aggiungono i costi delle cassette e la tariffa del 12 per cento pagata al “posteggiante”, il personaggio che la espone in vendita ai mercati generali. Alla fine si arriva a un prezzo al consumatore anche di 7 euro al chilo nei supermercati di Milano.
Gli orari di lavoro e la paga variano a seconda del tipo di raccolta. Ma la regola sono impieghi massacranti e sottopagati. Alle fragole si lavora per sette ore, ma se sono mature e vanno raccolte subito si arriva anche a 10 ore. Nei magazzini di confezionamento si arriva anche a 15 ore. Ogni donna deve raccogliere una pedana di uva pari a 8 quintali. Se ci mette più tempo la paga resta uguale, per cui alla fine il salario reale è meno di 4 euro l’ora.
Riprendendo le dichiarazioni di di Giuseppe Deleonardis, segretario della Flai Cgil Puglia, la Nicchi denunciava: la paga provinciale sarebbe di 54 euro e se all’uomo ne danno in realtà 35, la donna non va oltre i 27 euro. il salario ufficiale è di 50-60 euro. Ma vengono segnate la metà delle giornate di lavoro effettivamente lavorate. Le braccianti vengono costrette a firmare buste paga che rispettano i contratti, perché le aziende hanno bisogno di dimostrare che sono in regola per poter accedere ai finanziamenti pubblici. Di fatto continuano a pagare un terzo o al massimo la metà del salario dovuto, richiedendo indietro i soldi conteggiati in busta paga.
In provincia di Taranto, con inquadramento minimo, le donne ricevono una busta paga ufficiale di 47 euro lordi, però in realtà me ne percepiscono 27, massimo 28 a giornata. L’azienda consegna alle lavoratrici il foglio di assunzione, che devono sempre avere con sé nel caso ci dovesse essere un controllo. L’autista del pullman risulta essere un dipendente dell’agenzia di viaggi.
I datori di lavoro mettono la paga del caporale sull’assegno che percepiscono le lavoratrici, le quali riscuotono e danno al caporale la sua parte in nero”.
Di contorno allo sfruttamento del lavoro, però, nei campi italiani succede anche altro: “C’è chi subisce molestie sessuali o la richiesta di prostituirsi per poter lavorare. Ci sono donne caporali che sono anche proprietarie di pullman. Ma la figura più ambigua è quella che tutti chiamano “la fattora”, una sorta di kapò al femminile con una funzione di ricatto. È lei la persona di fiducia del caporale che controlla le lavoratrici sul campo. “Il suo ruolo è di subordinare psicologicamente le braccianti, garantendo loro assunzioni se rinunciano ai diritti”, spiegava il segretario della Flai Puglia, che aveva raccolto dati sul fenomeno: le straniere schiavizzate nei campi (molta manodopera è costituita da donne dell’Est Europa, mentre in Campania sono africane) in agricoltura sono 15 mila (contro i 5 mila uomini). Sono quasi sempre giovani mamme, ricattabili proprio perché hanno figli piccoli da mantenere. Un dato impressionante, che si somma ad un altro elemento preoccupante: il numero sempre crescente delle lavoratrici italiane, che, se non schiavizzate, sono comunque gravemente sfruttate; sempre secondo le stime del sindacato, in Campania, Puglia e Sicilia, le tre regioni a maggiore vocazione agricola, sono almeno 60 mila, in proporzione crescente rispetto alle straniere. Vengono pagate 3-4 euro l’ora, ma anche meno in alcuni territori, e costrette a turni massacranti”.
I caporali che operano in Puglia vanno a reclutare le ragazze soprattutto nelle zone agricole della Romania, nelle campagne intorno a Timisoara o a Iasi, zona al confine con la Moldavia. Le imbarcano su pullman da 50 posti. Il viaggio dura un giorno e una notte. “Organizzano viaggi verso il sud Italia – racconta Concetta Notarangelo, coordinatrice del progetto Caritas in Puglia – ma sappiamo per certo che arrivano anche in Emilia Romagna. Ma nessuno ha il coraggio di denunciare. Qui non si tratta di caporali e basta, si tratta di organizzazioni criminali. Malavita. Il caporale è solo un anello della catena. Gli annunci per questi lavori escono addirittura su un giornale romeno. Non è solo un passaparola. E le donne hanno paura. Ma senza denunce nessuno viene punito. In tre anni che seguo il progetto Caritas abbiamo raccolto in tutto 15 denunce. E poi è comunque difficile provare il reato, ci sono alcuni processi in corso, ma per ora nessuna condanna”.
Secondo i dati della Flai Cgil solo in Puglia sono tra le 30 e le 40 mila le donne gravemente sottopagate, a cui vanno aggiunte diverse altre migliaia in Campania e in Sicilia. A volte partono alle tre di notte e tornano a casa di pomeriggio. I caporali intascano 12 euro per ogni donna che hanno «procurato». Anche se hanno un regolare contratto, vengono pagate 20-25 euro al giorno. Mentre sulla busta paga ne risultano 45.
La Nicchi chiedeva pertanto ai titolari dei dicasteri interpellati se non ritenessero, tra le altre cose, “di assumere un’iniziativa normativa al fine di prevedere che si completi e rafforzi l’articolo 12 del decreto legislativo n. 138 del 2011 che ha modificato il 603-bis del codice penale che individua il caporalato come reato penale, introducendo esplicitamente che tali reati sono applicabili alle aziende utilizzatrici della manodopera, oggetto di intermediazione illecita di manodopera, prevedendo altresì forme di sostegno e protezione a quanti denunciano i casi di violazione” e “di prevedere maggiori interventi ispettivi sia in campo che nei magazzini ortofrutticoli atteso che gli interventi ispettivi in Puglia, pari a 1818, di poco superiori agli interventi 2013, hanno accertato oltre l’80 per cento di violazione e inadempienze a vario titolo da parte delle aziende di cui oltre il 50 per cento solo per lavoro nero, con provvedimenti di revoca delle fiscalizzazioni degli oneri sociali e finanziamenti pubblici per le aziende inadempienti e se le aziende interessate dalle ispezioni e infrazioni siano state oggetto di tali misure di revoca”.
La tragedia di questi giorni era stata ampiamente annunciata. Ma servivano i morti, come sempre accade in Italia, perché se ne parli e (forse) si intervenga.
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