Economia civile
Il diritto alla maternità per una donna architetto a Milano
Domenica 14 Maggio si celebrerà, in una buona parte del mondo, la festa della mamma. Molti ne scriveranno, narrando le complesse vicende che riguardano la maternità.
Qui un breve (non troppo) racconto di un punto di vista che riguarda il lavoro di architetto che, forse, trova punti di contatto con altre professioni.
Ipotesi
Supponiamo che una coppia decida di avere un figlio e che, nello specifico, in questa coppia sia presente una donna libera professionista.
Non hanno nessun obbligo alla natalità, certo: siamo in 7 miliardi sulla Terra e l’ONU stima che entro il 2050 arriveremo a 9 miliardi; conosciamo luoghi nei quali si combattono guerre a causa della scarsità di risorse e siamo spesso incuranti della esagerata differenza nelle possibilità di sopravvivenza fra chi vive nel mondo occidentale e il resto dell’umanità.
Mettere al mondo un figlio potrebbe allora essere considerato un atto estremamente egoistico, che non bada al futuro e non fa i conti con una situazione così chiara di limitatezza di disponibilità di questo mondo.
Eppure la maternità è ancora un atto intimamente legato ad un istinto di sopravvivenza, a un desiderio umano, seppur veicolato anche da una situazione culturale (il tasso di natalità è più basso proprio nel mondo occidentale), forse ingiusto da ostacolare.
Supponiamo, dunque, che, nonostante tutto, una coppia decida di avere un figlio.
Supponiamo, inoltre, che la donna della coppia sia un architetto e viva a Milano.
Coordinate economiche
(Avvertenza – alcune delle prossime righe presentano una serie di calcoli: abbiate pazienza.
Chi volesse invece fare le pulci, consideri che sono calcoli amatoriali da, rimanendo in tema, buon padre di famiglia, non da economista)
Un architetto è, obbligatoriamente, iscritto ad Inarcassa, che ne gestisce i contributi previdenziali in luogo dell’INPS. Chi è iscritto ad una cassa diversa dall’INPS ha diritto ad una indennità di maternità grazie ad una legge del 1990: già questa data dovrebbe far capire molto del mondo nel quale questa donna opera.
L’indennità di maternità è pari a 5 mensilità all’80% del reddito calcolato ai fini IRPEF: il reddito medio di un architetto, nel 2015, è pari a circa 19.000 euro lordi l’anno. Volendo essere ottimisti, consideriamo che esso corrisponda al reddito IRPEF.
Una donna che lavora come architetto, dunque, percepirà, come indennità di maternità, un totale di 6.333 euro, ai quali andrà tolta la ritenuta d’acconto del 20%, arrivando a 5.066 euro.
Durante i 5 mesi di maternità l’architetto può continuare ad emettere fatture e, quindi, a “lavorare”: per questa ragione i minimi contributivi obbligatori, pari a circa 3.000 euro all’anno, non vengono ridotti. Se, con una operazione poco ortodossa, ipotizziamo di spalmarli sui 12 mesi e poi di toglierli ai corrispondenti 5 di maternità, otteniamo una indennità di 3.750 euro.
Ovviamente non potrà fare a meno di pagare il commercialista, l’assicurazione obbligatoria, l’iscrizione all’Ordine degli architetti (spoiler: nell’anno della maternità il contributo all’Ordine è scontato a 115 euro invece che 178). Mantenendoci molto bassi, sono altri 100 euro al mese in meno.
Una donna che lavora come architetto e che rientra nella media dei redditi dei suoi colleghi, percepirà, allora, un rimborso di circa 650 euro al mese per 5 mesi a 180 giorni dal parto.
D’altronde non avrà nemmeno nessuno dei seguenti diritti:
- permessi retribuiti per esami prenatali;
- il 20% aggiuntivo che permette di raggiungere il 100% del reddito, previsto, per esempio, per il comparto pubblico;
- due periodi di riposo retribuiti di un’ora ciascuno al giorno per allattamento nel primo anno di vita;
- la possibilità di estendere di ulteriori 6 mesi (anche frazionati) l’astensione al lavoro, per i primi 8 anni del bambino, retribuiti al 30% del reddito.
Supporto logistico
Alla fine dei 5 mesi di maternità l’architetto cercherà di rientrare a tempo pieno nel mercato del lavoro, tentando di iscrivere il figlio ad un asilo (visto il suo reddito, proverà in prima istanza ad una scuola comunale).
Se questa donna vive a Milano, però, dovrebbe impegnarsi a concepire il proprio figlio in maniera tale che nasca prima della fine di Maggio: nella finestra delle iscrizioni agli asili comunali e nei privati convenzionati (ad Aprile) possono essere iscritti solo bambini nati prima del 31 Maggio.
Solo dopo innumerevoli chiamate agli operatori telefonici, potrà scoprire che esiste una finestra, a Settembre, per le iscrizioni tardive, con scarsa possibilità di ingresso, però, visto che i pochissimi posti disponibili in primavera saranno già stati coperti dalla prima tornata di iscrizioni. Bisogna considerare, infatti, che il numero di asili che accettano bambini al di sotto dell’anno è esiguo, senza dimenticare che sembra sbalorditivo anche solo pensare di portare il figlio all’asilo prima dei sei mesi.
Parlando, infatti, con gli operatori del servizio telefonico, parrà alla madre di essere lei la marziana, una persona scriteriata che non vuole badare al figlio per almeno un anno (anche se di fatto la sua indennità le copre al massimo 4 mesi).
L’iscrizione all’asilo, infatti, non è un diritto, ma una botta di fortuna per chi, almeno, può competere nelle graduatorie, essendo nato nel giusto periodo. Per tutti gli altri, il caso vuole che la data del parto non coincida con il calendario logistico del Comune di Milano, come se i bambini possano nascere solo nei primi 5 mesi dell’anno.
Ricadute lavorative
Ipotizziamo dove questa donna possa svolgere il suo lavoro da architetto e quali ricadute abbia la maternità.
Se lavora come finta dipendente di uno studio di architettura, con buona probabilità potrebbe perdere il suo posto di lavoro; nel caso non lo perdesse ma avesse delle mire di carriera all’interno dell’ufficio, sarà sopravanzata da chi non si assenta per maternità e possa garantire, prima durante e dopo, una dedizione totale allo studio stesso.
Se lavora come libera professionista singola perderà parte dei suoi lavori che, in un mercato selvaggio come il nostro, devono essere curati come piccoli bebè e trattenuti con i denti e con le unghie, ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana.
Se è associata in un piccolo studio, lo metterà in crisi, visto che lo lascerà con una persona fondamentale in meno, senza possibilità di sostituzione.
Il tutto, ovviamente, in un momento della vita nel quale il proprio lavoro, la propria carriera, i propri introiti, si trovano in un equilibrio delicatissimo, per mantenere (se non addirittura migliorare) il quale è necessario uno sforzo che è molto maggiore di quello che richiederebbe una fase lavorativa normale, magari senza una particolare ambizione.
La vicenda narrata non comprende il partner, che, spesso, si trova nella medesima situazione (esistono addirittura coppie di architetti, che dovrebbero essere usate per test antropologici e sociali), quindi incapace di fornire quel surplus di sostegno -economico e temporale- che potrebbe coprire i molti buchi scoperti da questa situazione.
Che fare
Possiamo decidere, come società, che fare figli non sia una scelta eticamente corretta, economicamente vantaggiosa, socialmente utile.
Basta deciderlo. Per anni in Cina è stato vietato mettere al mondo più di un figlio.
Si può programmare, quindi, di vietare o rendere estremamente svantaggioso procreare.
Vuol dire, per esempio, favorire un flusso migratorio esterno che permetta la sostenibilità economica di una società che invecchia, raggiungendo un equilibrio fra nazioni che fanno molti figli e nazioni che non ne hanno.
Si potrebbe anche decidere che avere figli sia un privilegio di chi guadagna un ottimo stipendio, di chi può permettersi una tata permanente, o abbia dei genitori nel pieno delle facoltà mentali e fisiche che vivano nelle vicinanze e che permettano di proseguire senza troppi problemi la propria carriera lavorativa.
Se, invece, consideriamo che un aumento demografico abbia un valore di per sè e, anzi, si voglia tendere a favorirlo (come prevede il Piano Nazionale per la Fertilità, del maggio 2015 – vi ricordate il Fertility Day?), indipendentemente dalle condizioni lavorative in cui ci si trova, è necessario procedere con degli interventi mirati, che possano effettivamente migliorare la situazione.
Luoghi comuni
Per prima cosa è necessario cambiare la mentalità di approccio alla maternità (paternità); la legislazione attuale, per quanto riguarda una donna architetto, sconta una serie di assunti che sono, in prima istanza, errati.
Si dà per scontato, forse, che un libero professionista iscritto ad un albo guadagni molto più, per esempio, di un dipendente e che quindi la mancanza di diritti venga compensata da una possibilità di spesa maggiore (per assistenza sanitaria, asili nidi privati, etc.). Questo era, forse, vero alcuni decenni fa, in un mercato del lavoro in cui solo una elite di persone poteva accedere ad un corso di studi universitario e quindi la professione era svolta da pochi architetti, in un momento storico di grande espansione edilizia. Il numero esiguo, d’altronde, ne faceva una minoranza anche dal punto di vista della lotta per i propri diritti. Oggi non é più così: i professionisti iscritti ad un albo sono diventati i nuovi deboli, in numero sempre maggiore, una categoria di persone che sconta un forte deficit di garanzie e tutele lavorative.
Si dà per scontato, magari, che la parola “libera” associata a “professionista” la trasformi in una specie di superdonna capace di lavorare a pieno ritmo anche durante quei 5 mesi di maternità retribuiti e che al massimo il suo lavoro sia essenzialmente gestibile in un ambito domestico, quale quello richiesto da un bambino lattante (come se il suo lavoro non dovesse prevedere auspicabilmente il bisogno di seguire un cantiere, incontrarsi quotidianamente con clienti e collaboratori, lavorare concentrati per parecchie ore consecutive, viaggiare, etc.).
Si dà per scontato, inoltre, che il ruolo della donna sia ancora subalterno a quello del proprio partner e che la realizzazione di una donna trovi conforto, soprattutto, nella maternità.
Non è un caso che oggi in Italia il 42% delle donne in età lavorativa sia disoccupata e l’82% degli insegnanti sia di sesso femminile: anche quando una certa emancipazione lavorativa emerge, i lavori preferiti sono quelli che meglio si adattano ai ritmi dei figli. Non esiste, insomma, la concezione che la carriera lavorativa e la maternità (o paternità) possano conciliarsi e che non debbano poggiare forzatamente sul sacrificio di almeno una persona nella coppia.
Si dà per scontato, altresì, che ancora esista una dualità uomo/donna, nella quale l’uomo debba essere il conduttore economico della famiglia e la donna la gestrice domestica della stessa.
Ma abbiamo visto che, per quanto riguarda le libere professioni, questa dualità (già di per sé ingiusta) sia ormai datata e, invece di aver alzato i ricavi economici delle donne, si sono tragicamente abbassati quelli degli uomini, attuando un livellamento auspicabile, ma verso il basso.
Tutto questo in una nazione che si straccia le vesti per il profondo calo delle nascite e prova a discutere del ruolo della madre e del padre, relegati a fare i baby-sitter permanenti dei propri figli, con una impossibilità evidente a poter portare avanti la propria attività lavorativa a pieno ritmo in un contesto già molto complicato.
D’altronde, nel Piano per la fertilità, citato prima, troviamo parti di testo che recitano frasi di questo tenore:
Da un punto di vista psicologico sembra diffuso un ripiegamento narcisistico sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo. Tale disposizione, spesso associata ad una persistenza di un’attitudine adolescenziale, facilitata dalla crisi economica e dalla perdita di valori e di identificazioni forti, si riflette sulla vita di coppia e porta a rinviare il momento della assunzione del ruolo genitoriale, con i compiti a questo legati. […]
Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili. […] La strategia delle good news per vincere la paura. […]
Suggerimenti non richiesti
Visto che un cambiamento radicale della società è difficilmente molto rapido, bisognerà innanzitutto puntare su questioni economiche e logistiche, che rendano le problematiche legate alla maternità e paternità meno opprimenti.
E’ chiaro, perciò, che tutte le tutele previste dal nostro ordinamento debbano essere estese alla libera professione e che le casse previdenziali debbano farsi carico almeno dei medesimi oneri di cui si fa carico l’INPS.
Se si è deciso che un bambino possa andare all’asilo nido solo dopo un anno dalla nascita, il periodo di maternità va esteso di conseguenza.
Se si vuole mantenere l’attuale sistema, al terzo-quarto mese dalla nascita va garantito l’accesso ad asili nido pubblici come un diritto/dovere alla pari dell’istruzione obbligatoria o, almeno, della scuola dell’Infanzia, prevedendo, ad ogni modo, dei costi molto minori di quanto già oggi offerto.
L’indennità di maternità deve prevedere che un figlio sia un costo e che quindi debba essere innalzata, addirittura oltre il 100% del reddito.
E’ necessario prevedere che, normalmente, un figlio si inserisca all’interno di un tema di famiglia: le stesse tutele previste per le madri devono essere garantite anche ai padri (o, in generale, al partner della madre), ma non in alternativa. Vuol dire che anche i padri possano godere di un congedo retribuito, temporalmente adeguato (non 4 giorni) e che la coppia possa gestire, anche in alternanza, la propria assenza dal lavoro attraverso permessi retribuiti.
Per liberi professionisti ciò si ottiene, ovviamente, solo attraverso un corrispettivo economico, visto che l’attività è svolta indipendentemente da un orario fisso.
In ultima analisi, dobbiamo chiederci dove effettivamente vogliamo muoverci come società: il mercato del lavoro antico si era adattato alle esigenze umane, trovando un equilibrio a sfavore della donna, ma permettendo all’uomo di coprire il gap creato nella coppia.
Oggi il lavoro dipendente tende a diminuire drasticamente e una buona fetta dei nuovi lavoratori si trova ad essere, volente o nolente, un lavoratore autonomo, dotato di propria partita iva. La flessibilità nel lavoro, la fluidità dei rapporti, le nuove maniere e gli ambiti inediti del lavorare, oltre alla dismissione del sacrificio familiare della donna, richiedono le medesime flessibilità e fluidità nelle tutele.
I contributi economici sono il primo passo, seguito da una concezione nuova della scuola, che deve essere più permeante, una sorta di luogo di supporto continuo, che riprenda il ruolo storicamente mantenuto dalla famiglia (i nonni, gli zii, i fratelli e le sorelle), ma in un ambito pubblico, comunitario.
Dobbiamo, insomma, decidere che i figli siano effettivamente un patrimonio da tutelare collettivamente in quanto società e come tale supportarci comunitariamente nell’avventura della maternità e della paternità.
testo scritto con Chiara Quinzii
*Foto in copertina: Marco Zanuso, Cini Boeri, Asilo nido per madri nubili al Lorenteggio, Milano, 1952 (fonte immagine)
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