Madre spietata o professionista lagnosa? La strada è ancora lunga, ragazze
Arriva l’8 marzo in cui ci si prodiga a spiegare quanto è bello essere donne, quanto la nostra società deve alle donne, quanto sono in gamba le donne.
Poi arriva il 14 marzo. Quando si dice che una donna incinta deve fare la madre invece di candidarsi a sindaco, che una donna grassa, casalinga non deve impegnarsi in politica e, già che ci siamo, si dovrebbe trivellare la propria sorella invece del mare.
Ora, a proposito della compatibilità tra l’essere professioniste, lavoratrici e madri vorrei raccontare un episodio della mia vita professionale che non mi ha creato frustrazione ma soltanto molta sorpresa e parecchia rabbia.
Laureata piuttosto giovane, a 22 anni, ho cominciato subito a lavorare: contratti atipici, a tempo determinato, Partita Iva. Sono stata una precursora di quello che è, oggi, lo standard per le giovani generazioni. Per quanto mi riguarda la flessibilità fu una scelta – troppo inquieta e incapace di decidere, ancora oggi, cosa fare da grande – e tutto sommato mi è andata bene fino qui. Ho lavorato molto, ho studiato molto, ho imparato molto, ho dato molto. Ho avuto salute, forza ed energie che mi hanno permesso di scegliere, cambiare, abbandonare lavori che non mi soddisfacevano più, cercarne altri che mi facessero crescere. Mi ritengo fortunata e non mi sono mai posta il problema che fosse qualcosa di “speciale”. Non mi sono neppure mai chiesta se questo avrebbe inibito il mio desiderio di essere madre: ho avuto a 33 anni una figlia amata, cercata, voluta.
Sono cresciuta con Le Tree ghinee di Virginia Woolf sotto il cuscino – regalo di una madre che ci ha insegnato ad essere donne, libere ed autonome economicamente. Come molte donne del Terzo Millennio, ho una visione onnipotente delle mie possibilità di tenere insieme tutte le facce del prisma.
Nel 2001 mandai il mio CV ad un’importante Head Hunter italiana che cercava manager per la gestione di eventi internazionali.
Passai 3 livelli di selezione: requisiti, titoli e prove. Arrivai al quarto, l’ultimo. Quello decisivo.
Mi chiesero solo allora della mia situazione familiare.
Dissi che avevo una figlia di 3anni, un compagno.
Spiegai che avevo ripreso a lavorare quando lei aveva 35 giorni. Mi occupavo di progetti europei da free lance e mi ero organizzata in modo da allattarla, crescerla, lavorare, viaggiare, tornare, scrivere progetti. Di notte, senza perdere una scadenza o un impegno.
Frequentando moltissimo ambienti internazionali ed europei per lavoro, nei primi anni di vita di mia figlia non era infrequente lei venisse con me: l’ho allattata ovunque, ho partecipato a seminari internazionali con la bimba al collo. Non ho mai, mai, visto nessuno stupirsi: i miei colleghi europei al massimo le regalavano delle matite colorate per disegnare o giocavano con lei mentre io intervenivo. Trovavo fasciatoi nei bagni degli uffici, simpatia nelle persone che mi accoglievano. Incontravo altre madri o padri professionisti con figli al seguito. Altrimenti restava a casa con suo padre, andava al Nido: non ha mai saltato un pasto, non è mai andata a scuola sporca. L’abbiamo tirata su abbastanza bene, non l’abbiamo mai dimenticata all’uscita della scuola, ho partecipato a tutte le recite scolastiche ed ai saggi di fine anno della sua infanzia.
Spiegai che ero perfettamente in grado di fare tutto. Anche perché avevo imparato a non perdere tempo su niente. A organizzare con scansione svizzera il tempo. A dare il massimo nelle ore di lavoro per dare il massimo nelle ore di cura. Una vita al massimo, è vero, ma era quella che mi ero scelta. Mai avrei pensato di “scaricare” la responsabilità delle mie scelte al contesto lavorativo o sociale: non avrei fatto mancare niente, perché avevo scelto di tenere insieme tutto. Mia responsabilità, mia organizzazione della vita. Mia fatica, mia stanchezza.
Mi dissero che preferivano non rischiare. Non fui assunta.
Sono abbastanza certa che se fossi stata un uomo non me lo avrebbero chiesto. In ogni caso non mi avrebbero guardato indecisi tra il giudicarmi una madre spietata o una professionista lagnosa e assenteista alle prese con le otiti del fantolino.
E sono anche abbastanza certa che un uomo della mia età, con i miei requisiti e con un figlio di 3 anni sarebbe stato giudicato un capofamiglia responsabile, pronto ad investire la sua vita nella carriera professionale per garantire benessere alla famiglia, affidabile e maturo. Quindi disponibile a lavorare fino a notte fonda in ufficio, a saltare le recite scolastiche, a passare i sabati e domeniche al telefono con i capi o in riunioni eterne fuori città.
Gli stereotipi funzionano, sono archetipi culturali che avrebbero bisogno di un’immissione selvaggia di risate ed ironia. Che era quello che mi venne alle labbra quando mi sentii dire che non sarei mai riuscita a conciliare una carriera internazionale con la maternità.
Quello che ancora il mondo professionale e politico italico non riesce ad accettare è il valore aggiunto – anche in termini di produttività ed efficienza – che le donne portano al sistema quando organizzano il tempo – loro e degli altri – per non perdere tempo. La conciliazione dei tempi porta un vantaggio al sistema: lo rende più efficace, più concentrato e, anche, più gentile.
Detto questo, non mi sono fermata. Ho tenuto e continuo a tenere tutto insieme. E alle mie sorelle dico che non dobbiamo rinunciare a niente.
Perché la strada è ancora lunga, ragazze. Non fatevi fregare.
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