La notizia è che in Italia si può morire per il colore della pelle
Emmanuel è stato ucciso per il colore della sua pelle e perché la sua presenza non era gradita. L’assassino è un italiano, relativamente giovane. Uno di noi.
Al momento sono questi i dettagli della vicenda che dovrebbero portarci a riflettere, commuoverci, indignarci. Quello che preferite. Il resto viene dopo.
Perché se Emmanuel fosse stato un ricco produttore musicale afroamericano di New York in vacanza nelle Marche e l’assassino un bibliotecario appassionato di filatelia e formaggi francesi, il discorso non sarebbe cambiato. In Italia, nel 2016, si può morire per il colore della pelle.
Ma a quanto pare per solleticare la nostra indignazione serve un contesto di riferimento, degli elementi da pescare nel nostro database emozionale, così da identificare più facilmente il bene e il male e canalizzare il nostro disturbo.
Eppure prima che ultrà, prima che fascista, persino prima che razzista, l’assassino è un membro della nostra comunità. Quindi prima di fare i processi mediatici agli ultrà e finanche prima di dire che in Italia abbiamo un problema con i fascisti, che c’è ed è evidente, dovremmo scavare nel profondo di noi stessi e capire perché ci troviamo sempre qui, perché ogni volta che ‘ci scappa il morto’ ci incontriamo su twitter per fare la gara a chi dice meglio ‘mai più’, a chi condanna con più enfasi, a chi si ritrova con più like sotto il proprio ‘ora basta’.
Emmanuel, prima che portatore di una storia drammatica e di una speranza stracciata barbaramente, era una persona che camminava sulle strade di una città italiana con la sua compagna. E, pur non volendo scomodare la retorica partigiana, è innegabile che i nostri nonni abbiano combattuto e siano morti proprio perché nelle nostre città si possa camminare liberamente. Senza essere insultati per la “razza”, senza essere ammazzati per il colore della pelle.
Dovrebbe essere questo fattore il propulsore della nostra indignazione. Solo quando sapremo indignarci per questo potremo provare empatia autentica per i musulmani e i cristiani che muoiono barbaramente a Jos, a Kano, a Kaduna, nei villaggi dello stato del Borno. Solo allora saremo in grado di immaginare cosa vuol dire attraversare il Sahara, essere violentati in Libia, sfidare il Mediterraneo in tempesta.
Come ha scritto Vittorio Zambardino, c’è “il bisogno di alleggerire e allontanare da sé il male”, nonostante, lo ribadiamo, “quello è uno di noi”. Un’idea pruriginosa, l’idea che chi ammazza Martin Luther King, chi imprigiona Mandela, finanche chi promulga le leggi razziali sia uno di noi.
Eppure in ogni epoca il male ha preso piede perché qualcuno era distratto, qualcun altro minimizzava o circoscriveva. E qualcun altro ancora condannava quando era ormai impossibile non farlo, quando era troppo tardi per cambiare le cose ma ancora in tempo per schierarsi dalla parte dei “giusti”. Come sta succedendo ora. Come nella Domenica delle salme di De Andrè, dove “nessuno si fece male, tutti a seguire il feretro del defunto ideale”.
Terremo anche questo in considerazione quando vedremo la fila di politici dietro al feretro. Chissà se ci saranno anche i senatori del Partito democratico che hanno assolto Calderoli dalle accuse di discriminazione razziale quando paragonò l’ex ministro Kyenge a un orango. Non è razzismo, visto che nella Lega pure c’è gente di colore, disse l’onorevole Claudio Moscardelli giustificando la decisione del suo gruppo.
Se in Italia si muore per il colore della pelle è colpa nostra. Dei nostri silenzi, della nostra indignazione tardiva. Forse, prima di sventolare gli Je suis Emmanuel Chidi Namdi, dovremmo chinare il capo e sussurrare Je suis le meurtrier, io sono l’assassino.
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