Diritti

Andrea Muccioli: “L’errore fu far dipendere San Patrignano da un’unica fonte”

8 Febbraio 2022

Poco più di un anno fa usciva la docuserie “Sanpa, luci e tenebre di San Patrignano” realizzata da Netflix. Un racconto che lascia grande spazio all’opinione dello spettatore e genera una spontanea ambiguità rispetto a schieramenti ben precisi. Secondo Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo, la serie ripropone un’immagine fasulla e deliberatamente falsificata, tanto da indurre lui e suo fratello Giacomo a denunciare, per diffamazione aggravata, gli autori e il network televisivo Netflix. Ma questo non basta.  Pochi mesi fa Andrea Muccioli, alla guida della comunità per i 18 anni successivi alla morte del padre, decide di raccontare la “sua verità” attraverso la pubblicazione di un libro “Fango e risate”.

Leggo il libro tutto di un fiato e avendo già visto la serie entro in profondità in una storia tra le più importanti d’Italia. La cosa mi appassiona a tal punto da cercare, grazie a comuni conoscenze, un contatto con Andrea Muccioli per intervistarlo. Lo incontro nella sua casa di Rimini in compagnia di un affettuoso e anziano cane e di due giovanissimi gatti.  Ne nasce una confessione, durata più di tre ore, dove Andrea ripercorre la storia di San Patrignano, dalla nascita alla controversa figura del padre, fino alla sua gestione conclusa dieci anni fa, per importanti disaccordi con la famiglia Moratti. Incontro un uomo sereno, oggi con una vita e un lavoro diverso, ma questo non gli impedisce di sdegnarsi al racconto di come è andata a finire la lunga storia di San Patrignano.

“Fango e Risate” di Andrea Muccioli

 

L’intervista è talmente lunga che ho deciso di pubblicarla in due parti, oggi la prima, tra non molto la seconda.

Iniziamo a parlare del tuo libro, nell’introduzione affermi che una delle motivazioni è stata la serie televisiva che ha riproposto un’immagine fasulla, grottesca, deliberatamente falsificata, profondamente lesiva dell’onore, della dignità, della verità tanto dell’uomo che della sua opera. Vuoi spiegarmi meglio questa tua opinione?

Da quella serie mio padre è stato descritto in maniera alterata e grottesca, come una persona ignorante e greve, rustica, violenta, omosessuale, misogina, malata di aids.  Le ultime tre accuse, omosessuale, misogino, malato e poi morto di aids sono gravissime, talmente lesive della sua dignità e dell’onore, che io e mio fratello abbiamo deciso di denunciare alla procura della repubblica di Rimini, per diffamazione aggravata, gli autori e il network televisivo che ha prodotto questa fiction.  L’uomo descritto non è per nulla assomigliante a quello che io ho conosciuto bene, prima da figlio poi da compagno di avventura, quando ho scelto di impegnarmi per i ragazzi della comunità e per proseguire la sua missione.  Nei 18 anni che ho passato come responsabile della comunità, occupandomi di un delicato momento di transizione e poi del suo sviluppo, ho costantemente avvertito mio padre come una presenza molto forte. È stato come se lo avessi avuto al mio fianco.  Ho dovuto compiere scelte, vivere tensioni, drammi, conquiste, prendendo per migliaia di volte le decisioni che avevo visto prendere da lui in situazioni analoghe.  L’ho sentito molto presente nella mia vita e ho avuto modo di conoscerlo ancora meglio, anzi, penso di essere una delle persone esistenti che abbiano conosciuto meglio mio padre, anche nelle angolature meno accessibili e più nascoste.  Nel libro non mi sono posto il problema di nasconderle, anzi ho sentito la necessità di esprimere anche quei limiti, quegli errori, quei difetti, grandi e piccoli, propri di ogni essere umano. Era una persona con un grande carisma e un grande carattere e come tutte le persone di questo genere, innovative, creative, rivoluzionarie, era una persona ingombrante e tutt’altro che facile. Ma omosessuale e misogino proprio no. Tutt’altro.

Vincenzo e Andrea Muccioli

Riguardo all’omosessualità, in comunità è sempre stata accettata e mio padre si è sempre contraddistinto per dolcezza, sensibilità e disponibilità nei confronti dei ragazzi omosessuali vissuti a San Patrignano. Certo non avrebbe mai permesso che venissero presi di mira. Aveva un forte senso protettivo nei confronti di ogni persona particolarmente fragile e per ciascuno pretendeva sempre rispetto ed educazione. L’oscenità non è averlo descritto come omosessuale, ma aver insinuato che possa essersi approfittato della sua figura di educatore per cercare o ricevere occasioni di promiscuità sessuale. Sarebbe stato ugualmente grave nei confronti delle ragazze. Sarebbe stato come se uno psichiatra o un sacerdote, nell’ambito delle proprie funzioni terapeutiche o spirituali, approfittassero delle condizioni di affidamento dei propri assistiti per ottenere favori o rapporti sessuali con loro. Deontologicamente, giuridicamente, culturalmente e moralmente inaccettabile. Mio padre ha sempre avuto una coerenza e un rispetto assoluti per la propria missione educativa e non ha mai neppure lontanamente pensato di utilizzare il suo carisma, il suo ruolo, la sua funzione e in qualche modo la sua paternità, per garantirsi favori sessuali. Di nessun tipo e per nessuna ragione. Ho cercato di mettere poi in evidenza nel libro, una cosa che in pochi hanno capito, il substrato religioso della figura, della persona e dei creatori di questa opera sociale che è stata San Patrignano.  Mio padre non riusciva a staccare questa visione religiosa, ma laica della vita, da tutto ciò che ha fatto e che faceva.  Un rapporto sessuale con i ragazzi, che considerava suoi figli, sarebbe stato per lui orribilmente contro natura. Aver distorto e alterato questa realtà lo trovo di una straordinaria gravità, soprattutto a distanza di 26 anni dalla sua morte, considerato che lui non si può più difendere da queste accuse.  L’AIDS è indissolubilmente collegato all’accusa di omosessualità, perché la serie tv insinua che, se avesse contratto la malattia, l’avrebbe presa per contagio dovuto a rapporti sessuali.  La misoginia, poi, a mio avviso, rende ancor più  evidente l’intento diffamatorio.  Ci sono migliaia di testimonianze ed esempi, in cui mio padre tutela, difende, protegge la dignità e i diritti paritetici della donna nel contesto di San Patrignano e fuori da esso.  Il fatto di aver ascoltato delle voci isolate, viziate da un atteggiamento negativo, in qualche modo indotto dai propri fallimenti, da un rapporto non limpido con mio padre e con la comunità, aver selettivamente utilizzato solo testimonianze distorte, averle strumentalizzate, per descrivere mio padre con colori e ombre che assolutamente non gli appartengono, è oggettivamente un fatto gravissimo.  Quando è uscita questa fiction ho visto talmente tanta “fiction”, una lesione così profonda dell’umanità, dell’onore e dell’opera di mio padre che, essendoci ormai rimasti solo io e mio fratello a difenderlo, abbiamo dovuto giocoforza intraprendere questa azione legale. D’altronde, la comunità oggi non solo non e’ più caratterizzata dall’amore e dal rispetto della sua figura e per la sua opera, ma e’ addirittura impegnata a demolire, anzi, annientare la sua memoria storica (sono state staccate tutte le fotografie dai muri per rimuovere l’opera ed il passaggio di mio padre e della mia famiglia, durato trentatré  anni). Una cosa a mio parere deprecabile e molto triste. Tuttavia, mi sono reso conto che la semplice azione giudiziaria non poteva bastare.  Nessuna eventuale sentenza di condanna potrebbe mai ripagare il danno fattoci rispetto a milioni di telespettatori, in Italia e all’estero, quindi ho pensato che sarebbe stato necessario scrivere un racconto di verità, raccontare la sua storia, la mia storia, quella della mia famiglia e della comunità, ancora prima della sua nascita, perché è stata frutto di una gestazione sofferta, spiritualmente profonda, poi della sua evoluzione, delle imprese straordinarie e anche degli errori e dei fallimenti, fino a quando mio padre è morto. Un libro scritto in 6 mesi, un flusso di racconto e di scrittura che non sapevo nemmeno appartenermi. Nascerà poi la seconda parte, nella quale racconterò i miei venti anni di gestione della comunità.

San Patrignano. Parco famiglia Muccioli. Vincenzo Muccioli in posa con moglie Antonietta.

Sono stati scritti molti libri su San Patrignano, ce n’è uno in particolare scritto nel ’96 con il titolo “La quiete sotto la pelle” e ripubblicato nel marzo 2021 con il titolo “Sanpa madre amorosa e crudele” di Fabio Cantelli che è stato a lungo ospite della comunità. Lo stesso libro è stato fonte di ispirazione per gli autori della serie tv, che giudizio ne hai?

Preferirei non commentare. Ovviamente ho letto il libro, ne avevo già letti alcuni passaggi ancora quando Fabio lo scrisse nel 1995, prima di abbandonare la comunità. Non discuto la qualità letteraria, né voglio discutere l’autore, che peraltro ho avuto modo di conoscere molto bene nei tanti anni in cui ha avuto bisogno della comunità e di mio padre.  Mi limito solo a ricordare che nel momento più difficile della vita di mio padre, quando cominciava a stare male, quando si sentiva davvero perseguitato da questa sorta di caccia alle streghe, eravamo tutti lì, e ciascuno di noi ha dovuto fare delle scelte. Credo che il valore di un uomo stia tutto lì, nelle scelte che fa nei momenti di massimo conflitto, tensione, dolore e difficoltà. Nel decidere di pensare solo a salvarsi il culo o aiutare i compagni feriti, a difendersi, rimanendo in trincea. In quel tempo i poteri giudiziari di Rimini e parte dei poteri politici italiani, collateralmente e successivamente al processo Maranzano, non paghi del fatto che mio padre fosse stato assolto dall’accusa più grave di omicidio colposo e fosse stato condannato per favoreggiamento, seppur col beneficio degli alti valori morali e sociali delle sue scelte, continuarono ad aprire numerosi altri filoni collaterali di inchiesta.  L’obiettivo pareva essere quello di trovare altri modi per dimostrare che mio padre fosse un mostro, una persona che maltrattava e picchiava i ragazzi, che aveva costruito un sistema punitivo molto violento, un luogo dove osservare e punire i trasgressori, costruendo gendarmerie interne con la presenza di picchiatori.  Tutto questo teorema, che non era stato possibile dimostrare al processo, parevano apprestarsi a ricostruirlo con molti altri filoni di inchiesta, il cui percorso prevedeva letteralmente di bussare alla porta di centinaia e centinaia di ragazzi che erano stati in comunità per spingerli a dire ciò che volevano sentirsi dire, la volontà di strappare dei lembi accusatori su maltrattamenti subiti, uno schiaffone, un calcio. Questo ha costituito per mio padre una sofferenza terrificante e chiunque gli abbia vissuto accanto, prima e durante questo periodo, non poteva non rendersi conto dell’enorme prostrazione, della straordinaria sofferenza umana che lui provava.  Non tanto per le accuse in sé o per la reiterata deviazione e la assidua attenzione di certi poteri giudiziari, ma per vedere centinaia di persone, che aveva accolto, abbracciato e amato, alle quali aveva donato tutto, come se fossero suoi figli, affinché si riscattassero e si riprendessero in mano la propria vita, che lo colpivano, tradivano e ricattavano. La rabbia di queste persone, a volte spinte da questa caccia alle streghe, ma più spesso dovuta al senso di fallimento di un percorso di recupero magari andato male, qualche volta fallito, o nel quale non avevano ottenuto da mio padre quei favori cui aspiravano, si è scatenata nei confronti di chi li aveva accolti. Così si è sentito tradito. In quei lunghi mesi del 1995, quelli che poi l’hanno portato alla morte per una decisione tragica di dover e voler morire, per consentire alla comunità di andare avanti senza di lui, in quel periodo le persone più vicine a mio padre erano li’, conoscevano tutto questo. Sapevano che questi poteri forti tentavano in ogni modo di annientare la comunità. Dopodiché sono legittime le scelte di ciascuno. C’e’ chi ha deciso di rimanere, chi ha deciso di proteggerlo e di difenderlo, di stargli vicino e di stare vicino ai ragazzi della comunità, anche se coscienti di non averne i mezzi adeguati. E c’e’ chi ha trovato più comodo fuggire, in modo più o meno ipocrita, vigliacco, opportunista. Non saprei come altro definire chi, in un momento di tale dramma e di tale sofferenza del padre, decide di utilizzare gli ultimi brandelli della sua carne o di venderlo per pochi spicci per costruirsi il proprio comodo e il proprio tornaconto personale, disinteressato e insensibile a ciò che invece stava avvenendo dentro quell’uomo, e in quel luogo. Anche chi e’ rimasto aveva tanti dubbi e incertezze, o vedeva cose che non andavano bene, e che non sapeva come poter correggere. Ma come Bubi, Carlo e altri, pur con un sacco di dubbi e di incertezze, scossi da tutto ciò che era successo, noi non siamo scappati. Fin troppo facile, in quei tempi travagliati, costruirsi alibi e giustificazioni e lasciare nella merda 2000 ragazzi in difficoltà. Noi siamo rimasti per difendere loro e la dignità di quell’opera da chi voleva metterci le mani sopra. La comunità è andata avanti perché c’erano queste persone, mentre quelli che son scappati cercavano di passare per eroi e di lasciare agli altri la figura dei codardi.

Delogu, Cantelli, che sono stati molto vicino a tuo padre e per i quali la comunità è stata molto più di una famiglia, affermano entrambi, in modo diverso, che una volta guariti dalla crisi, il problema era il dopo, la sopravvivenza e il provare a ricostruire qualcosa fuori da San Patrignano. Perché secondo te?

Delogu e Cantelli sono solo due delle tante persone salvate da mio padre.  Questo è un fatto, che neppure loro possono negare. Un altro fatto è che queste persone, una volta accolte e riaccolte, negli anni hanno dimostrato di fregarsene di tutto quello che avevano ricevuto e dell’amore che gli era stato offerto. Nel loro atteggiamento non trovo la spinta altruistica, il reale desiderio di restituire, la dedizione e il sostegno, che mio padre per esempio ha avuto nei loro confronti. Legittimo. Ma per me molto e tutta la mia famiglia è stato come un tradimento.

Andrea Muccioli con la mamma

Nessuno gli ha mai chiesto di diventare operatori o volontari.  Meno legittimo, e a mio avviso discutibile, è stato attribuirsi tali ruoli, semplicemente per ottenere magari solo maggior considerazione da parte degli altri, godendo a livello pubblico della circostanza di essere collocate in posizione vicina a mio padre. Mio padre, d’altronde, voleva salvare tutti, non voleva lasciare indietro nessuno. Questo atteggiamento gli ha permesso di compiere delle imprese impossibili, perché salvare dei ragazzi e vederli per lunghi anni vivere una vita sana, lontana da qualsiasi tipo di droga, è stato possibile solamente per la follia, la passione indomabile, l’incrollabile determinazione, il coraggio e lo spirito di sacrificio di mio padre. Le persone che lui accoglieva e che decideva di difendere avevano la fragile rigidità del cristallo, erano insieme arrendevoli per natura e allo stesso tempo tremendamente ostinate. Spesso, nei momenti in cui crollava verticalmente la loro volontà e la spinta a ritornare a farsi diventava l’unica forza dominante, avevano bisogno di qualcuno che sostituisse la propria volontà alla loro, che li costringesse a non fuggire, fino al momento in cui non sarebbero stati capaci di proseguire il percorso con le proprie forze.  Questo è stato fatto in una maniera totale, incondizionata e incondizionabile. Però non tutti possono essere salvati e non sempre si possiedono le risorse necessarie per salvare tutti, se tu non misuri bene le tue forze, i tuoi strumenti e le tue capacità rischi di promettere aiuto a persone che poi non riesci ad aiutare come vorresti. Nel mio libro ho cercato di chiarire questo aspetto.  Sotto il fuoco nemico, però c’era lui, non io.  Mio padre mi ha insegnato che talvolta la fuga, la rinuncia, un fallimento sono solo una tappa di un percorso di rinascita più lungo.  Lui non è stato sempre capace di agire in questo senso. Quando tu fai entrare 2.200 persone, alle quali prometti protezione risorse e strumenti educativi, e poi ne affidi una parte di queste a delle persone che non sono minimamente in grado di fornire quegli strumenti, anzi sono persone di per sé instabili, poco responsabili e carenti delle competenze educative necessarie, pur con tutta la più buona volontà, rischiano sovente di cadere loro stesse in atteggiamenti fuorvianti e negativi. Questo alla lunga si è dimostrato un grande limite, che si è poi trasformato in un grande errore, quello di contare sulle capacità di persone da lui delegate ad assolvere un ruolo educativo che non erano minimamente in grado di svolgere. Così è accaduto che alcuni settori si siano trasformati in cellule cancerogene di un sistema educativo pur sano.  Al di là dei processi mediatici e giudiziari, mio padre avrebbe dovuto eliminare queste cellule impazzite, per fare in modo che l’organismo rimanesse sano, ben prima che accadesse una tragedia come quella del povero Roberto Maranzano. Questo al di là dei processi mediatici e giudiziari. Delogu, come altre, era una persona che andava fatta uscire, anche favorevolmente, dalla comunità, molti anni prima.  Tenere le persone nella convinzione che lì potranno stare meglio che altrove, magari assecondandone la debolezza o il loro ego, è stato a mio avviso un grave errore, di impostazione e di prospettiva. Posso aver fatto il mio percorso in comunità e posso ad un certo punto pensare che mi conviene continuare a stare dentro, perché ho raggiunto uno status che fuori non avrei mai, perché ho delle responsabilità o perché mi sono stati affidati dei piccoli poteri, o posso contare su piccoli o grandi privilegi: la macchina, uno stipendio, la casetta. Tutto ciò, però, può anche rappresentare una scoria velenosa che, goccia dopo goccia, magari inquina quell’essere umano perché lo proietta in una dimensione che non è la sua.  Il senso della comunità è quello di accogliere una persona che non ha risorse, capacità, forze per bastare a se stesso e per vivere una vita di responsabilità e di rispetto della propria persona e di quella degli altri, e portarlo ad un punto in cui invece queste capacità, queste risorse li abbia costruiti.  Quello è il momento in cui non ha più senso restare in comunità. Se non lo si fa il rischio è che si possano verificare due ordini di problemi molto gravi: il primo è che la persona rischi di vivere dentro la comunità uno status, un’immagine di se stesso che non corrisponde minimamente al reale. Quella persona non ha in questo caso la forza di uscire per misurarsi con la realtà, probabilmente ben più difficile. Se tu lasci che queste persone restino in comunità, è come se covassi delle serpi in seno.  L’altra cosa grave è che nella persona resti un dubbio atroce : “ma se andassi fuori, sarei capace di vivere la mia esistenza?”.  La persona così vive una frustrazione, il dubbio atroce di non sapere quale sarebbe stato l’esito della sua vita e delle sue capacità al di fuori della comunità. I vari Delogu, i Cantelli, i Mandingo, o molti ragazzi che hanno persino ricattato mio padre, rappresentano la chiara trasposizione di questo concetto. L’errore di mio padre è stato quello di forzare che le persone rimanessero in comunità, con la convinzione che lì sarebbero state meglio che altrove. Persone interessate solo a prendere, che nel momento della sua massima vulnerabilità, non si sono fatti alcuno scrupolo di rivoltarglisi contro.

Tu eri adolescente quando tuo padre ha iniziato questa avventura, come è stato il tuo rapporto con le droghe? Vivere in comunità e vedere con i propri occhi gli effetti della droga è bastato o ci sono stati momenti nei quali c’è stata la tentazione di provare e se sì ne hai mai parlato con tuo padre? Quando invece sei diventato genitore come hai affrontato il tema con i tuoi figli?

I lettori possono crederci o meno, ma assicuro che non ho mai provato droghe, semplicemente perché non ho mai sentito la necessità di provarle. Naturalmente le occasioni non mancavano, ma non ho mai nemmeno fumato uno spinello. Non avevo paura di provare, semplicemente non mi interessava, non ne sentivo il bisogno. Probabilmente vivere a contatto con i ragazzi della comunità, toccare con mano come la devastazione della droga ne avesse consumato l’anima e il corpo, mi ha aiutato a comprenderne i rischi meglio di tanti miei coetanei. Il mio primo figlio Lorenzo è nato nel ’98 ed erano già tre anni che ero a capo della comunità. Parlavo con i ragazzi, li accoglievo, andavo a parlare della nostra esperienza in giro per l’Italia e per il mondo. Quando parli con una persona che viene da quell’esperienza ti trovi spesso a parlare dell’atto di drogarsi, degli effetti che le varie droghe esercitano sul nostro sistema fisiologico e psicologico, mi sono trovato varie volte a descriverne gli effetti e talvolta mi è capitato di vedere lo stupore di certi ragazzi, magari tossici di lungo corso, increduli di vedere come una persona, che non aveva mai fatto uso di droghe, conoscesse intimamente le sostanze, i solchi profondi che lasciano nell’anima, più  ancora che nelle vene o nel corpo. Il rito della preparazione, la frenesia della ricerca della droga quando manca, fino a quel senso di estasi e di appagamento. L’attesa accompagnata da questo desiderio quasi erotico, quasi sessuale nei confronti della sostanza e poi l’effetto che genera a seconda delle droghe che usi e le sensazioni che ti dà. È attraverso la conoscenza che impariamo a non avere paura dell’ignoto che incombe su di noi.

Andrea Muccioli con la moglie, sempre al suo fianco nei 18 anni di gestione della comunità dopo la morte del padre

Anche da genitore questa conoscenza mi ha permesso di parlare di droga in modo trasparente e naturale. Anche quando ho tenuto incontri e conferenze nelle scuole, parlando ai ragazzi, ho sempre evitato, trovato inutile fare terrorismo. La droga è una figata, la droga è buona, la droga è divertente, la droga, apparentemente, è uno straordinario anestetico dell’anima. Chiunque sia malato di solitudine, mancanza di autostima, carenza di affetto o punti di riferimento, e ne sperimenta l’illusoria potenza rigeneratrice, facilmente se ne lascia travolgere, perchè quella pace profonda ed avvolgente, quel senso di dominio che per un po’ di tempo finge di regalarti vorresti che durasse per sempre. Non puoi aspettare per ritornare ad essa, per farti di nuovo avvolgere e proteggere dalla sua coltre rassicurante. Ancora e ancora e ancora. Fino ad annullarti in essa. Fino ad essere disposto a lasciarti prosciugare ogni forza, ogni residua capacità di autodeterminazione, ogni libertà. Perchè quando la lasci entrare lei non se ne va, occupa uno spazio che diventa sempre più grande, fino a soffocare le altre parti di te, che tu non riesci più ad esprimere e neppure a sentire. Quando ti ha mangiato tutto la cosa difficile è ammetterlo a te stesso. Quando una cosa occupa tanto spazio dentro di te, se non ce l’hai ti senti vuoto e nel sentirti vuoto ti senti disperato. Quel residuo di cervello, di coscienza e di piccole capacità che ti rimangono sono tutte al servizio di quell’enorme vuoto. La droga è questo. Non bisogna averne paura, bisogna saperne parlare e sapersi misurare con questo grande sostituto dell’esistenza. Ho sempre cercato di far capire come fosse un grave errore, da parte dei media, della scuola, della politica parlare di droga limitandosi a considerarne la pericolosità solo in termini di principi attivi ed effetti. In quel modo non parli di droga, la droga non è solo la sostanza o l’effetto che crea, ma soprattutto il motivo che porta l’uomo ad usarla. È sempre la causa la cosa fondamentale che va indagata. Se non si cambia questo approccio si continuerà a fare errori enormi, non trovando soluzioni e mettendo in pericolo le future generazioni. Se non investiamo in progetti, strumenti e risorse educative, se lasciamo che i giovani crescano senza equilibrio, amor proprio, senso di responsabilità, esempi e punti di riferimento, anche il sesso, la realtà virtuale, il gioco, e più in generale qualsiasi strumento possa potenzialmente permetterci di fuggire da una situazione di difficoltà, senza affrontarla, può diventare droga. Diventa droga un casco che ti metti in testa, con le cuffie, vedendo un mondo e illudendoti di poter essere dentro quel mondo, da un’altra parte, non in quell’isolamento, solitudine e tristezza che è il salotto di casa o di letto sfatto, in cui stemperi la tua esistenza, anziché rifarti il letto, uscire di casa, trovarti un lavoro, vivere le relazioni con il tuo prossimo, mettendo a rischio la tua vulnerabilità, affrontando insicurezze e paure. La droga del futuro è questa, è già qua. Mentre ancora noi perdiamo tempo nel discutere se le droghe devono essere leggere, pesanti, legalizziamo le leggere, condanniamo le pesanti, stiamo perdendo completamente la prospettiva, ignoriamo il contesto, mentre quello stesso contesto ci propone nuove menzogne. Mettersi oggi a pensare se sia il caso di legalizzare o meno la droga è totalmente fuorviante, perchè e un tema ampiamente superato dalla storia. Una storia anche recente, che in America tra il 2014 e il 2018 ha causato 200 mila morti di overdose da Fentanil, ossicodone e altri oppioidi sintetici. Perfettamente legali, autorizzati dal governo, regolarmente prescritti dai medici e acquistati in farmacia come antidolorifici, hanno creato milioni di tossicodipendenti e successivamente, ovviamente, un mercato nero. La maggior parte dell’opinione pubblica ignora completamente questa epidemia, ed è bizzarro e grottesco che la stessa opinione pubblica firmi poi i referendum sulla legalizzazione della marijuana. Qua abbiamo l’esempio di una droga, messa sul mercato in maniera autorizzata e legale, che non solo ha causato la morte di 200 mila persone per overdose, ma ha portato persone normali, convinte di usare un semplice farmaco, a diventare tossico dipendenti in maniera più e meno consapevole. Senza neppure fermare il narcotraffico, che ha trovato nuovi mercati e nuove rotte, dal Messico alla Cina. Questo dimostra in maniera incontrovertibile che ovunque tu immetti e autorizzi una droga a diventare legale pretendendone di regolamentare l’uso, attraverso prescrizioni, esisterà sempre un mercato nero, che approfittando della legalità, entrerà con tutti i due piedi e creerà ancora più danni.

Quali sono stati gli errori, se ritieni che ce ne siano, che ha commesso tuo padre durante 20 anni e tu stesso cosa non rifaresti dei tuoi 16 anni di direzione a San Patrignano?

Io non rifarei due cose, la prima è far dipendere la vita della comunità e il suo sostentamento da un’unica fonte. San Patrignano e la mia famiglia meritavano una sorte ben diversa. Un’opera sociale così unica e straordinaria, con risultati mai realizzati prima da nessuno in quel campo, avrebbe meritato di continuare a esercitare la propria funzione, con lo spirito missionario, garantendosi la possibilità di operare attraverso una rete di donatori, nessuno dei quali decisivo per la sua sopravvivenza. Questo è stato uno dei lasciti di mio padre che non sono riuscito a trasformare e a modificare in maniera determinante e decisiva. Quell’opera sociale oggi non esiste più, ci sono appunto dei proprietari, che fanno finta di essere dei mecenati, ma che in realtà fanno il bello e il cattivo tempo. Il denaro diventa condizionante rispetto a tutte le scelte. Questo ha fatto si che, ad un certo punto, mia madre se ne andasse da casa sua, portandosi dietro le spoglie di mio padre. Era diventato un luogo che insultava non solo la persona di mio padre, ma ogni principio e valore posto a fondamento di quell’opera. Mia madre non avrebbe mai potuto lasciare che mio padre rimanesse in un luogo che ne tradiva in maniera così definitiva lo spirito.  La seconda cosa che non rifarei è collegata al fatto che ogni percorso di recupero, chiunque lo svolga, deve vedere il suo naturale traguardo al di fuori della comunità. La persona accolta, dopo un lungo periodo passato a ricostruire il senso stesso e gli strumenti del proprio vivere, dovrebbe lasciare la comunità e tornare ad affrontare la vita sociale esterna, tornare fuori, nel mondo reale, con le proprie forze. Il traguardo non può essere in comunità, ma deve essere collocato necessariamente fuori da essa. Purtroppo, nella lunga storia di San Patrignano, così non è stato. Troppe persone sono rimaste a fare gli operatori alla conclusione del loro percorso, svolgendo una funzione di educatori, di formatori, senza mai aver affrontato la realtà esterna, nella pretesa di sentire una sorta di vocazione. In realtà molti di loro sono rimasti per comodità o per paura, in qualche misura rifugiandosi nella comunità. La vocazione di fare il formatore e l’educatore la puoi scoprire solamente dopo che sei uscito e ti sei reinserito nella società, è quella la prova che ti mette in condizioni di capire che vita vuoi. Se senti dentro di te una vocazione, una chiamata, allora ritorni in comunità con un altro ruolo. La radice malata di quello e di altri luoghi è ed è stata quella. In pratica ci sono dei rifugiati che fanno gli educatori, che vivono uno status, un ruolo di potere, dei privilegi decisamente sovradimensionati rispetto alle reali competenze e capacità. E spesso oltre alla professionalità gli manca l’equilibrio e pian piano finisce per consumarsi anche la passione.

(Clicca qui per leggere la seconda parte dell’intervista)

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