Questo articolo è stato pubblicato sulla newsletter di PuntoCritico.info in data 23 Novembre 2024
Ai piedi del monumento che nega le responsabilità del nazionalismo magiaro nell’Olocausto, una parte degli ebrei ungheresi continua a contestare Orbàn, un’altra si adatta. Un groviglio di pulsioni reazionarie, antisemite, anticomuniste continua a incombere sull’Ungheria.
Un sorriso scolorito, due occhi che guardano il fotografo a volte annoiati, a volte imbarazzati. Su quei volti che non esistono più, una spruzzata di pioggia che ha rovesciato un acquazzone sulla capitale ungherese in pieno agosto. Dietro le loro storie, un angelo aggredito da un’aquila si staglia immobile nel cielo pulito della sera. Sono solo oggetti, immagini, ma si percepisce lo stridore di due narrazioni, la prima del ricordo, la seconda della propaganda. Tra le foto di cari e amici perduti, biglietti e cartelli che spiegano le ragioni di quell’assembramento di ricordi. Perché in Piazza della Libertà di Budapest da almeno 10 anni è in atto una silenziosa resistenza di chi si oppone a una retorica edulcorata e superficiale della memoria dell’Olocausto.
Quando mi imbatto nel monumento improvvisato, noto alcuni cartelli in tutte le lingue del mondo che spiegano perché quella strana esposizione ha preso vita a due passi da un monumento ufficiale. Alcune settimane dopo, riesco a mettermi in contatto con Gabor Sebő, uno degli attivisti del collettivo Szabadságszínpad che ha dato vita a questa iniziativa della memoria. «Quando il governo ha annunciato la costruzione del monumento, è stato un grande scandalo che è finito persino sui giornali – spiega Sebő – si tratta di una narrativa estremamente manipolatoria, che vuole cancellare le responsabilità personali dell’Ungheria nella tragedia della Shoah». L’Arcangelo Gabriele, infatti, nelle intenzioni di scultore e dell’ufficio governativo committente, rappresenta l’Ungheria aggredita dall’aquila tedesca (il Terzo Reich). E non è una nostra ipotesi: è l’interpretazione ufficiale del monumento. Una narrativa che disgusta diversi sopravvissuti al massacro antisemita, ebrei del Dopoguerra e sostenitori solidali contrari alla falsificazione della Storia. Perché dà quasi l’impressione che l’Ungheria (poverina!) non abbia veramente voluto partecipare allo sterminio nazista, ma sia stata un’altra “vittima” delle circostanze storiche.
La Storia, invece, è un po’ diversa e non fa sconti al popolo magiaro. «Dal 1920 al 1944 qui da noi c’era l’ammiraglio Miklós Horthy, che era un grande estimatore di Hitler e diede il via alle prime persecuzioni, come la prima deportazione del 41. Prima, quindi, dell’occupazione tedesca del ‘44 – continua Sebő – e le leggi che stabilì erano molto simili alle regole di Hitler». Una similitudine che si nota anche nella “parabola dei capri espiatori”, le vittime sacrificali ideali per la propaganda di regime. Le prime persecuzioni antisemite, infatti, non sarebbero state motivate “solo” dall’odio contro i cittadini ebrei «i primi pogrom sono iniziati pochi anni dopo il Terrore Bianco: dopo un breve periodo di rivoluzione socialista, iniziò un processo di controrivoluzione conservatore e violento. Schiacciare gli ebrei era anche un modo per soffocare i dissidenti perché allora si credeva che il comunismo fosse legato all’intellighenzia ebraica. Non a caso, già nel 1920 l’Ungheria promulgò una legge per limitare la presenza ebraica nell’istruzione di alto livello». Non solo un caso magiaro. Lara Piccardo, docente di Storia delle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova ed esperta di Europa Orientale, precisa che «anche in Russia fino ai tempi di Stalin e sicuramente fino all’avvento di Kruscev, essere ebreo ed essere oppositore politico erano le due accuse cardine, le due facce della stessa medaglia con cui le autorità identificavano i dissidenti. Ad esempio Trotsky, il grande antagonista di Stalin, era anche accusato di essere ebreo».
«L’antisemitismo – continua – era un problema che coinvolgeva diverse aree dell’Europa dell’Est, che in questo senso comprende anche parte della Germania. Il principio fondamentale era l’idea che le comunità ebraiche o non fossero mai state integrate o che non si fossero mai volute integrare». Un tropo, quello dell’ebreo malvagio e avido, che dà vita un po’ in tutta Europa a miti e leggende che dipingono gli ebrei come gli “antagonisti” per eccellenza. Quando, nei rivolgimenti storici, l’Europa dell’Est si trova ad essere assorbita da imperi e apparati multinazionali (la Russia ad esempio) ecco che allora: «le comunità locali si sono trovate assorbite in un impero multinazionale in cui già facevano fatica a far emergere i loro bisogni, con accanto comunità, quelle ebraiche, considerate “estranee”, con un’organizzazione sociale e di vita tendenzialmente “a parte” rispetto alla società in cui si trovavano. In alcuni casi, costituivano anche comunità più ricche rispetto a quella che li circondava». Così, la frustrazione e la rabbia che non trovavano sfogo contro responsabili più altolocati, magari lontani geograficamente, si riversava contro il bersaglio più vicino, la locale comunità ebraica. Così, iniziano i primi pogrom: rivolte di comunità autoctone, massacri registrati fin dall’età medievale. Non solo nella Germania di Hitler perché, infatti, si verificarono da prima del “momento aureo” del nazismo. «Un esempio tra tutti – spiega ancora Piccardo – è il caso, avvenuto nella Seconda Guerra Mondiale, del Pogrom di Jedwabne, un massacro avvenuto nel luglio del 1941 quando le SS stabilirono che nella città, di cui metà della popolazione era ebraica, andava eliminata la componente ebraica». Non furono però i tedeschi a mettere in pratica il disegno omicida: «I polacchi sostanzialmente risposero “ci pensiamo noi”. Presero prima gli uomini che erano partiti per i campi, poi raccolsero donne, anziani e bambini nella chiesa del paese. E vi diedero fuoco. Furono di una tale crudeltà che le SS, che pure non erano intervenute, chiesero di salvarne “almeno uno per famiglia”».
L’Est Europa oggi cerca una strada ambigua per liberarsi di questa tradizione antisemita, e l’Ungheria in particolare. «Il monumento è stata una mossa elettorale per “ripulirsi l’immagine” – accusa Sebő – la narrativa per cui l’Ungheria sarebbe stata vittima della Germania è rivolta agli elettori di estrema destra. La realtà è che anche le odierne politiche del suo governo, dalla censura dei media al permissivismo verso certi movimenti, sono forme di fascismo “soft”». Viktor Orban d’altra parte è ampiamente permissivo nei confronti dei movimenti neofascisti. È il suo governo a chiudere gli occhi ogni anno nel Giorno dell’Onore, quando ogni 11 febbraio gruppi dichiaratamente neonazisti si riversano nella capitale Budapest da tutta Europa. «Orban voleva ripulirsi la coscienza con il monumento. Noi invece abbiamo dato vita, a partire da Marzo di quell’anno, a un “contromemoriale” civile alla cui inaugurazione hanno partecipato anche alcuni sopravvissuti della Shoah. Non credo che certo revisionismo antisemita sia intrinseco negli ungheresi: credo che un governo diverso avrebbe fatto scelte diverse». Sotto la spinta dei criteri europei, i Paesi del blocco sovietico si sono dovuti rassegnare a celebrare la memoria di un periodo scomodo. «Il problema – sostiene d’altra parte Piccardo – è anche che queste questioni vengono trattate come questioni di politica interna, anche dall’Unione Europea. Tra i criteri di Copenhagen del 1993 c’erano anche quelli contenuti nella Carta delle minoranze del consiglio d’Europa, con particolare riferimento alla protezione, appunto, delle minoranze. Ma quando si è trattato di identificare chi siano queste minoranze, ci si è concentrati su altri aspetti. È vero – sottolinea – che i paesi del blocco di Visegrad, tra cui l’Ungheria si sono dovuti impegnare a rispettare questi principi, una volta entrati nell’Unione. Ma mancano i dispositivi vincolanti per fare in modo che le norme siano rispettate omogeneamente: eventuali forzature confliggerebbero con il principio di giurisdizione domestica». Un clima di incertezza che non aiuta gli ebrei ungheresi a sentirsi sicuri: secondo l’ultimo sondaggio dell’Agenzia Ue per i diritti fondamentali, il 65% degli ebrei magiari pensa che l’antisemitismo sia un grosso problema nella loro quotidianità. E solo il 20% crede che il governo stia facendo abbastanza.
«Dopo che è scoppiato lo scandalo – continua Sebő – abbiamo organizzato un flash mob, all’inizio di febbraio. Ci siamo detto, “Dobbiamo creare un memoriale che riporti la verità, cos’è successo davvero”. Così a partire dal successo della manifestazione abbiamo organizzato un gruppo di cittadini volontari che si occupano della manutenzione del memoriale». Si parla di dieci anni fa: era il febbraio del 2014, e le elezioni parlamentari (adombrate da brogli e accuse di corruzione) regalarono a Viktor Orban un terzo mandato.
Un altro problema, è che sui rapporti con il governo non tutte le comunità ebraiche marciano nella stessa direzione. «La situazione è peggiorata, e alcuni suoi slogan sono diventati popolari anche tra alcuni ebrei. Tra questi una comunità ebraica molto vicina a lui, la EMIH fondata da Slomò Koves, che chiude un occhio sulle affermazioni antisemite in cambio di finanziamenti». La presenza di queste fratture non aiuta le comunità ebraiche in un contesto di micro aggressioni. Così come non le aiuta la guerra in Medioriente e le violazioni del diritto internazionale israelane. «Ciò che sta facendo Israele in Medio Oriente – afferma Piccardo – non migliora la situazione. Se prima solo una minoranza, gli antisemiti e i neonazisti, avrebbero apertamente criticato queste comunità, ora si stanno alienando anche le simpatie di chi vede le azioni di Israele in Libano e Gaza». Anche se difficilmente, secondo la docente, questo porterà a una nuova ondata di violenze paragonabile a quelle di un tempo, e non tanto perché l’antisemitismo e l’estrema destra siano acqua passata, ma perché : «oggi ci sono altri nemici, verso cui può orientarsi la propaganda in caso di necessità: i migranti e l’Unione Europea».
«È importante non dimenticare, e continueremo a manifestare finché il monumento non sarà sostituito con qualcosa che tuteli veramente la memoria della Shoah. Non so quando accadrà. Probabilmente prima servirà un cambiamento politico» conclude Sebő. Intanto, il monumento civile, fatto di carta e memoria, è ancora lì. È nato quando la svolta autoritaria di Orban (“un nuovo Horthy” lo definisce Sebő) è iniziata. Forse, sarà anche testimone della sua fine.
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.