Diritti
A due anni dall’omicidio Regeni, un Egitto dilaniato si prepara al voto
Mancano due mesi alle elezioni presidenziali, e nell’Egitto in cui proprio due anni fa spariva Giulio Regeni, dove l’Italia ha grandi interessi (e importanti investimenti), la situazione sociale e politica è sempre più intricata. Cresce il malcontento: lo dimostrano le proteste di giugno contro il trattato ratificato dal presidente Abdel Fattah Al Sisi per cedere due isole del Mar Rosso al suo ingombrante vicino, l’Arabia Saudita; o quelle di inizio gennaio, quando decine di dimostranti si sono scontrati con le forze dell’ordine mentre protestavano per la morte di un ragazzo che era in custodia in una stazione di polizia.
Crisi economica, povertà e proteste
L’economia non va bene. I prezzi sono aumentati a dismisura dopo la decisione della Banca centrale, nel novembre 2016, di svalutare la lira egiziana. A luglio l’inflazione ha raggiunto il 33% in un paese dove il Pil pro capite (PPP) è inferiore a quello venezuelano o bielorusso. E le drastiche riduzioni dei sussidi statali su prodotti alimentari e energetici (ad esempio le bombole di gas che milioni di egiziani utilizzano per cucinare) hanno colpito duramente una popolazione ridotta già allo stremo.
Secondo la CAPMAS (l’equivalente egiziano dell’Istat) il 2015 ha visto i più alti livelli di povertà dal 2000; quasi il 28% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, situata nel 2015 a 482 lire egiziane al mese (corrispondenti a una quarantina di euro). Nel novembre 2016 circa 130 persone sono state arrestate mentre partecipavano a delle proteste contro l’aumento dei prezzi.
«Dal 2013 le azioni dei sindacati e le mobilitazioni si sono susseguite a un ritmo persino superiore a quello degli ultimi anni della presidenza di Mubarak – spiega a Gli Stati Generali Silvia Colombo, senior fellow all’Istituto Affari Internazionali di Roma ed esperta di politiche mediorientali – La frustrazione della gente è molto forte». In effetti dall’inizio della presidenza di Al Sisi, nel giugno 2014, alla fine del dicembre 2015, si è registrata una media giornaliera di proteste 5 volte maggiore rispetto a quella registrata sotto Mubarak fra il 2008 e il 2010.
Violazioni dei diritti umani
Proteste, nonostante quella che Human Rights Watch ha definito una “repressione selvaggia”. Fra gli egiziani circola una barzelletta amara: “devi arrivare al controllo passaporti dell’aeroporto del Cairo per sapere se hai ancora il permesso di viaggiare”.
Secondo Joe Stork, vice direttore della sezione Medio Oriente di Human Rights Watch, “il presidente Al Sisi ha dato ai funzionari della polizia e della Sicurezza nazionale il via libera per usare la tortura ogni volta che vogliono. L’impunità per l’uso sistematico della tortura ha lasciato i cittadini senza alcuna speranza di giustizia”. Nella classifica Human Freedom Index 2016 del Cato Institute di Washington, l’Egitto è 144esimo su un totale di 159 paesi. Un peggioramento anche rispetto all’Egitto di Mubarak: nella stessa classifica per l’anno 2010, il paese era 130esimo.
Lo conferma a Gli Stati Generali Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: «il bilancio di questi quattro anni di presidenza Al Sisi è molto negativo dal punto di vista dei diritti umani. Non che le precedenti amministrazioni avessero dato segnali particolarmente positivi, però dal luglio del 2013 [quando Al Sisi ha deposto l’islamista Mohamed Morsi] la situazione è persino peggiorata. Al punto che neanche il precedente regime di Hosni Mubarak reggerebbe il confronto».
Nel 2015 le organizzazioni per i diritti umani egiziane segnalavano che gli oppositori e i dissidenti politici dietro le sbarre erano circa 40mila. «La realtà però potrebbe essere peggiore – specifica Noury –. È difficile avere cifre sempre aggiornate, perché chi indaga sulle violazioni dei diritti umani spesso finisce in galera».
L’Egitto non è neanche un paese per giornalisti. Nel ranking 2017 sulla libertà di stampa nel mondo di Reporter senza frontiere l’Egitto è 161esimo su 180. L’ONG lo definisce “una delle più grandi carceri per giornalisti del mondo”. «I media sono imbavagliati – nota Noury – ci sono almeno dodici giornalisti e fotogiornalisti in prigione, alcuni condannati, altri in attesa di processo. Talvolta sono rinchiusi dai giorni del colpo di stato del 2013».
All’inizio di gennaio il procuratore generale egiziano ha ordinato anche un’indagine preliminare su un articolo del New York Times. Il giornale aveva citato delle registrazioni di conversazioni trapelate in cui Ashraf Al Kholi, un ufficiale dell’intelligence egiziana, avrebbe spiegato a vari conduttori televisivi come persuadere gli spettatori ad accettare la decisione americana di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele spostando lì la sua ambasciata. Per il procuratore l’articolo “mina la sicurezza dell’Egitto e la pace pubblica, e danneggia l’interesse pubblico del Paese”.
La corsa alle elezioni
La lista completa dei candidati al voto del 26 marzo non esiste ancora, ma venerdì è stata formalizzata la candidatura dell’attuale presidente, il generale Al Sisi. Che, a detta degli esperti, non può permettersi di stare troppo tranquillo. Secondo Robert Springborg, professore nel dipartimento di War Studies del King’s College di Londra, «la presidenza di Al Sisi è intrinsecamente instabile».
Del resto, Al Sisi ha un predecessore a dir poco ingombrante alle spalle. Nei suoi trent’anni alla guida del paese, Hosni Mubarak aveva creato un regime con una presenza capillare in tutte le sfere dello Stato e della società, e contava su alleati potenti, in Egitto e all’estero. La sua base d’appoggio era vasta e solida. Basata, in primis, sul sostegno della polizia e del Ministero degli Interni. Al punto che, secondo il ricercatore senior del Carnegie Middle East Center, Yezid Sayigh, “l’ascesa di uno ‘stato di sicurezza’ sotto Mubarak […] sembrava aver relegato le forze armate egiziane a un ruolo di secondo piano”.
Non pare essere altrettanto per Al Sisi. «Il presidente ha costruito le fondamenta del suo potere sulle forze armate, e in particolare sulla Military intelligence – continua Springborg –. E ha posto i militari al di sopra del Ministero degli interni e a tutte le altre istituzioni e organizzazioni, statali e non. In altre parole, quella di Al Sisi è una dittatura militare, ma la sua è la presidenza con la base d’appoggio più ristretta che l’Egitto abbia mai avuto dal 1952. Un solo, grave errore e sarà rovesciato, molto probabilmente da un altro ufficiale». Fonti diplomatiche europee sentite da Gli Stati Generali, da parte loro, gettano acqua sul fuoco, ma confermano la rilevanza dell’appuntamento elettorale.
L’eredità di Mubarak
Che un rivale al presidente emerga proprio dalle forze armate è un’eventualità verosimile anche alla luce di una delle presunte conversazioni telefoniche ottenute dal New York Times a inizio gennaio. Nella telefonata in questione il già citato ufficiale della Military intelligence (MI), Ashraf Al Kholi, avrebbe messo in guardia un presentatore televisivo dall’attaccare Shafiq durante il suo programma perché il governo stava “ancora negoziando” con lui. Secondo quanto riportato dalla testata di Londra Middle East Eye, che avrebbe avuto accesso alle trascrizioni integrali delle conversazioni, Al Kholi avrebbe anche indicato al presentatore di preparare una durissima campagna per screditare Shafiq “se persiste”.
Shafiq, ministro dell’aviazione civile dal 2002 al 2011 e prima comandante in capo dell’aviazione militare, ha reso noto il 7 gennaio con un tweet che rinunciava a correre per la presidenza, e nessuna campagna è stata finora lanciata contro di lui. Ma c’è un altro aspetto importante nella telefonata di Al Kholi riportata da Middle East Eye: l’accenno alle divisioni interne alla General intelligence, subordinata alle forze armate, dove alcuni avrebbero preso le parti di Shafiq.
Non è un caso. «Ahmed Shafiq rappresentava una continuità con l’Egitto di Mubarak – sottolinea Silvia Colombo –, una continuità garantita dal sostrato di provenienza di entrambi, Shafiq e Mubarak, ossia le forze armate. Certo, anche Al Sisi viene da lì, ma l’esercito egiziano è talmente vasto e potente, a livello politico ed economico, che è alla base di un gran numero di istituzioni e importanti personalità egiziane, non solo del presidente».
E d’altra parte sarebbe ingenuo pensare che trent’anni di solido “mubarakismo” possano essere spazzati via in appena sette anni di nouveau régime. «La General intelligence (GI) era molto potente sotto Mubarak, e anzi lavorava gomito a gomito con i suoi stretti collaboratori, incluso Shafiq – spiega Springborg –. Perciò è verosimile che al suo interno ci siano ancora degli ufficiali fedeli a lui. Oltretutto la GI è stata subordinata alla MI, che ai tempi di Mubarak era ritenuta meno consapevole degli equilibri politici rispetto alla prima. Quindi senz’altro degli ufficiali nella GI reputano la MI incapace di gestire l’opposizione politica».
Un problema di non poco conto secondo il professore. «La longevità di questa presidenza dipende dalla capacità della MI di sorvegliare e controllare gli ufficiali, e da quella dei militari di impedire che emerga qualunque pericolo da dentro o fuori lo Stato» sottolinea Springborg.
Il potere dell’esercito
“Senza la minaccia dei Fratelli Musulmani a unificare i centri vitali del potere del regime di Al Sisi, le tensioni latenti stanno emergendo” scriveva due anni fa Eric Trager, del Washington Institute for Near East Policy. Illustrando anche le tensioni “tra i vari servizi di sicurezza, che spesso competono tra loro per i fondi e l’influenza politica”. “Forse più significativo, – continuava Trager – alcuni funzionari stranieri hanno segnalato tensioni fra Al Sisi e i militari”.
“Se avessimo delle elezioni libere chiunque batterebbe Al Sisi” diceva l’avvocato Khaled Ali (attualmente candidato alle presidenziali) alla Reuters lo scorso giugno. «Al Sisi è consapevole della propria fragilità – dice Colombo –. Ecco spiegate le manovre contro Shafiq. Il presidente sta giocando tutte le sue carte. Il punto però è che in Egitto è cronico che le forze armate abbiano degli interessi che vanno ben oltre la sola figura del presidente, e che al loro interno ci siano diverse correnti. Rappresentano il nocciolo duro delle istituzioni dello Stato, e i loro gangli arrivano dappertutto. Quindi, ancor più che dalla società civile o dalla popolazione, è dal loro interno che emergono le nuove ondate di contestazione. È stato così sotto Mubarak, potrebbe succedere anche con Al Sisi».
Proprio martedì l’Ansa dava notizia dell’arresto di Sami Anan, un generale in pensione che due giorni fa aveva annunciato di voler correre alle elezioni. Anan aveva ricoperto la prestigiosa carica di Capo dello staff delle Forze armate egiziane (in pratica era il terzo in comando dopo il ministro della difesa e il comandante in capo) dal 2005 al 2012, quando era stato messo in pensione dall’allora presidente islamista Mohamed Morsi.
Secondo quanto riportato dal quotidiano Al Ahram, l’esercito l’ha accusato di diverse “violazioni e reati”, e in un messaggio audio trasmesso sulla TV di stato, un portavoce dell’esercito ha dichiarato che l’annuncio di Anan di candidarsi alle elezioni rappresenta un’istigazione contro i militari con l’obiettivo “di dividere le forze armate e il popolo egiziano”. E dire che alle elezioni mancano ancora due mesi…
Foto copertina: Pixabay
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