Diritti

Vivere (nonostante) un assedio

9 Aprile 2019

Lo scorso 5 aprile è stato ricordato il ventisettesimo anniversario dell’inizio dell’assedio di Sarajevo. Era l’aprile 1992 quando le truppe serbe bloccarono la città, che si sarebbe liberata soltanto nel febbraio 1996.

Ogni anno si ricordano il numero dei morti, dei feriti o delle granate scaricate sulla città, lasciando alle cifre il compito di rendere conto di quanto successo. Queste, però, non bastano.

Quell’assedio ha tolto a tanti, oltre alla vita, la possibilità di vivere un’infanzia, una giovinezza o una vecchiaia normale. La tragedia della guerra non ha, però, impedito a Sarajevo e ai suoi cittadini di vivere.

Ho cercato di ripercorrere brevemente quelle attività che gli assediati hanno utilizzato come scudo contro la barbarie degli aggressori e grazie alle quali hanno cercato di riprodurre la normalità in un mondo che intorno a loro era diventato folle.

UNIVERSITÀ APERTA

Sarajevo è oggi il più importante centro di studi universitari della Bosnia-Erzegovina. Era così anche prima della guerra: tanti studenti provenienti da ogni parte del Paese vivevano nella città al momento dell’inizio dell’assedio.

Molti edifici e molte strutture dell’università sono state danneggiate o distrutte durante i bombardamenti, ma gli insegnamenti non si sono mai fermati. A lezione si andava ogni giorno rischiando la vita, attraversando gli incroci di Sarajevo e sperando nell’assenza o nella “grazia” dei cecchini che li controllavano.

Anche se gli studenti maschi spesso non potevano continuare gli studi, perché costretti alle armi dal direttivo militare, che talvolta arruolava i ragazzi proprio nelle aule, la continuità degli insegnamenti ha permesso a tanti giovani di completare il proprio percorso universitario anche durante l’assedio.

ANDARE A TEATRO

Vista la durissima quotidianità, una fuga dalla realtà era di vitale importanza. Così, un mese dopo l’inizio dell’assedio, alcuni importanti intellettuali della città pensarono di fondare il Teatro di guerra di Sarajevo. Dall’iniziativa di Gradimir Gojer, Safet Plakalo, Djordje Mačkić e Dubravko Bibanović ebbe vita uno dei più interessanti progetti di questi anni. Sono state oltre 2000 le rappresentazioni teatrali andate in scena nella città assediata, fondamentali per permettere ai cittadini di immedesimarsi in un’altra realtà e soprattutto per non impazzire sotto il peso dell’inferno quotidiano.

Le opere presentate erano prevalentemente concentrate sul tema dell’opposizione alla guerra, come testimonia il titolo della prima: Sklonište (“Il rifugio”), con protagonista Jasna Diklić, attiva in 97 rappresentazioni durante l’assedio. Negli anni dopo la guerra, questa attrice è diventata celebre grazie alle tante apparizioni in diverse serie televisive, fra cui Viza za budućnost (“Un visto per il futuro”), in cui si presentava come una signora serba che tornava a Sarajevo a guerra terminata.

SARAJEVO FILM FESTIVAL

Fra le attività culturali che hanno avuto inizio nella città assediata c’è anche un festival cinematografico.

Il Sarajevo Film Festival è oggi uno dei principali film festival del Sud-Est Europa e una grande attrazione turistica. Ogni anno oltre 100.000 persone partecipano alle proiezioni di film e cortometraggi nel mese di agosto e spesso sono presenti alcuni fra i più grandi nomi del cinema internazionale.

La prima edizione di questa manifestazione si è tenuta fra l’ottobre e il novembre 1995, in una città ancora assediata. Pochi si aspettavano un grande pubblico per l’occasione, ma le presenze furono addirittura 15.000. Fra i partecipanti spiccava anche un piccolo gruppo di 37 persone provenienti da 15 Paesi diversi.

LA MUSICA

La musica era uno strumento di evasione e di resistenza, anche se, come testimonia il cantautore Henda, era difficile registrare le canzoni, soprattutto per la mancanza di elettricità. Nonostante ciò, la scena musicale è stata più che mai attiva.

Un problema per la registrazione delle canzoni era anche il rumore provocato dai bombardamenti. Lo testimonia questo audio del 1992, in cui Henda tenta di registrare per la prima volta quello che sarà il celebre pezzo Sarajevska raja, accompagnato dal sinistro suono delle granate:

https://www.youtube.com/watch?v=PeO1NAMnwiE

Henda, nome d’arte di Mugdim Avdić, è stato il grande protagonista in campo musicale degli anni di guerra. La sua vita e la vita della città durante l’assedio sono racchiuse nell’album Zaboravljeni Grad (“La città dimenticata”), registrato nel 1993.

Il brano Sarajevska Raja è stato seguito anche da uno spot filmato nel cuore della città, la Baščaršija, durante l’assedio. In un clima surreale, Henda canta con una chitarra in mano, passeggiando per le vie del centro e coinvolgendo nel finale due signori più anziani, che ballano e sorridono con lui:

Un altro grande cantante è stato Mladen Vojičić, detto Tifa. Il suo pezzo più popolare si chiama Grbavica e porta il nome di un quartiere occupato dall’esercito serbo già dai primi giorni dell’assedio e uscito letteralmente distrutto dalla guerra.

Tifa canta soprattutto la sofferenza del non poter tornare alla propria casa, condivisa da tutti gli abitanti di Grbavica, che potevano vedere il proprio quartiere da oltre il fiume Miljacka ma non potevano avervi accesso.

IL CALCIO

Alla popolarità di quest’ultimo brano ha contribuito il legame fra Grbavica e il FK Željezničar, una delle due principali squadre di calcio della città. In questo quartiere sorge, infatti, lo stadio omonimo, dove il seguitissimo Željo gioca le sue partite in casa. Prima di ogni partita il brano è cantato dalla tifoseria, talvolta con la partecipazione dello stesso Tifa.

Lo stadio Grbavica era tagliato diagonalmente dal fronte di guerra ed è stato completamente distrutto: Tom Watt racconta benissimo quei momenti in Football Outposts. La ristrutturazione dello stadio è stata difficile ma si sta lentamente completando, grazie soprattutto al contributo diretto della tifoseria, che nel 2016 ha finanziato la costruzione di una tribuna.

In questo stadio ha segnato i primi gol della sua carriera Edin Džeko, oggi attaccante della Roma. Torna spesso nelle interviste una scena della sua infanzia, vissuta nella città assediata. A Sarajevo si giocava a calcio anche durante la guerra e Džeko trascorreva i pomeriggi al campo con gli altri ragazzi. In uno di quei giorni, però, la madre Belma non gli permise di uscire e proprio quel pomeriggio tre granate colpirono il campo: molti amici di Džeko persero la vita.

Uscire per giocare all’aperto era sempre molto rischioso. Hadis Zubanović, in seguito calciatore del Željezničar, ha raccontato a Tom Watt che la scelta di andare o non andare al campo dipendeva dall’approssimativa previsione che certe zone della città non sarebbero state bombardate durante il tempo di gioco.

Il calcio, però, non solo si giocava in città, ma nel 1994 ci fu anche la possibilità di assistere a una partita dagli spalti dell’Asim Ferhatović-Hase, lo stadio olimpico costruito per le Olimpiadi invernali del 1984. Nonostante tutte le difficoltà, il 28 marzo scesero in campo i calciatori del FK Sarajevo, l’altra delle due squadre della città, e la rappresentativa delle Forze di protezione delle Nazioni Unite. Furono 15.000 i tifosi sugli spalti che festeggiarono infine il 4:0 dei locali. Questa fu una partita tra soldati, dato che anche la squadra del Sarajevo era composta da ragazzi che militavano nell’esercito che difendeva la città.

La rappresentativa calcistica del Sarajevo ha poi giocato alcune amichevoli internazionali all’estero, per cercare di portare all’attenzione la situazione della città e del Paese. Una di queste partite si è giocata nel 1994 allo stadio Ennio Tardini ed è stata trasmessa in diretta dalla Rai: il Parma ha sconfitto il Sarajevo per 2:1.

“IS THERE A TIME TO BE A BEAUTY QUEEN” (Miss Sarajevo, U2)

“C’è un tempo per essere una regina di bellezza” è un verso della canzone Miss Sarajevo, prodotta dal gruppo irlandese U2 e dal tenore Luciano Pavarotti, che ricorda un concorso di bellezza tenutosi nella città assediata.

Nel 1993, la diciassettenne Inela Nogić fu eletta “Miss Sarajevo” e durante la premiazione fu sollevato uno striscione rivolto al mondo che recitava: “Non permettete loro di ucciderci“. Dopo la vittoria, alla domanda su quali fossero i suoi progetti per il futuro, Inela aveva dichiarato di non sapere nemmeno se il giorno successivo sarebbe rimasta viva.

Questo fatto ha colpito molto Bono, il leader degli U2, che ha mostrato grande empatia nei confronti di Sarajevo e ha finanziato il documentario prodotto da Bill Carter proprio su questo concorso di bellezza. Da qui il desiderio di aiutare la città e la composizione di Miss Sarajevo.

A sancire, infine, l’unione della formazione irlandese con Sarajevo, nel 1997, gli U2 hanno dato vita a un concerto che rimarrà per sempre nella storia della Bosnia-Erzegovina. Allo stadio olimpico, nella città da poco liberata, il gruppo rock ha suonato davanti a 45.000 persone, in un clima di festa che aveva finalmente il sapore di un ritorno alla normalità.

“IN GUERRA, LA VERA IMMAGINE DI SARAJEVO ERA LA VITA” (Maschere per un massacro, Paolo Rumiz)

Paolo Rumiz è il miglior interprete in Italia (e non solo) degli anni della guerra in Bosnia-Erzegovina, che ha vissuto in prima persona. Credo che queste sue parole descrivano al meglio quello che è stata la Sarajevo assediata:

“La cosa più affascinante di Sarajevo è appunto questa testarda urbanità che sopravvive agli inverni, ai cannoni, alle restrizioni alimentari, all’assenza di luce, acqua e gas. Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla. In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. Il suo centellinare ogni residuo comfort, il suo attaccamento testardo ai riti di un’antica vita borghese. A due passi dal rancido delle trincee, i teatri funzionavano, la gente sapeva di sapone, le donne mettevano il rossetto e facevano la messa in piega, persino i soldati tornavano dal fronte con una loro pallida, estenuata nobiltà.
Nella moviola della mia mente, Sarajevo è un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua, è il vecchio Mujo Kulenović che aggiusta il tetto della bottega, è un musulmano che in centro quasi si inchina davanti a un parroco cattolico. Sarajevo è una pentola che non ha mai toccato carne di maiale e che nelle case ortodosse e cattoliche è sempre pronta per gli ospiti di religione islamica; è Kanita Fočaka che a trecento metri dalle linee serbe apre una scuola di buone maniere; è una fila di bambini disciplinati che vanno, in mezzo alla guerra, a imparare il bon ton.”

(Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2011, p. 115.)

 

(L’immagine di copertina è stata realizzata da Pika Žvan.)

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