Diritti
Diritti umani: a novembre l’ONU mette l’Italia sotto esame
Il 4 novembre l’Italia è attesa all’esame di diritti umani di fronte alle Nazioni Unite. Il nostro paese è infatti chiamato a fare il cosiddetto «terzo ciclo» della Revisione periodica universale (Universal Periodic Review – UPR), una procedura per cui, ogni quattro anni circa, tutti gli stati membri dell’Onu si sottopongono ad un esame complessivo proprio in materia di diritti umani. Introdotta nel 2006 dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa procedura ha la finalità di spingere i paesi ad adempiere agli obblighi a tutela e garanzia dei diritti umani, quindi lavorare per attuare politiche adeguate, creando una certa pressione sociale.
La Revisione è un vero e proprio “esame-paese”, che si svolge in due fasi. Durante la prima hanno diritto di parola solo gli Stati, nella seconda (che per l’Italia sarà a marzo 2020) intervengono anche le ONG. L’esame iniziale è basato su un rapporto nazionale redatto dal Governo che, in alcuni casi, come quello dell’Italia, “consulta” le ONG prima dell’UPR, ma anche su informazioni raccolte dall’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), da esperti, consulenti. La conclusione è un documento finale che poi viene incluso nel rapporto del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel rapporto adottato dal Consiglio sono identificate le raccomandazioni accettate dallo Stato in esame e sono annotate le altre, con rispettivi commenti.
Il governo italiano ha consegnato il suo rapporto nazionale nei tempi stabiliti (la scadenza era il 5 agosto), come ci ha confermato il Cidu, il Comitato interministeriale per i diritti umani, che assolve agli obblighi assunti dall’Italia in esecuzione dei numerosi accordi e convenzioni adottati sul piano internazionale per proteggere e promuovere i diritti umani.
Nel 2014 all’Italia sono state fatte 186 raccomandazioni: ne ha accettate 176. Le raccomandazioni erano incentrate principalmente sulla ratifica di alcuni trattati; l’istituzione di una commissione nazionale indipendente sui diritti umani (National Human Rights Institution – Nhri); lotta alla discriminazione, il razzismo e la xenofobia; lotta alla violenza contro le donne; tutela dei diritti dei rom; protezione dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo. Alcune raccomandazioni hanno affrontato questioni come la tortura e l’uso della forza, le condizioni carcerarie e in ultimo la protezione dei giornalisti.
Le 176 raccomandazioni accettate sono ritenute, da parte italiana, già attuate o in fase di attuazione. Inoltre, il nostro paese ha parzialmente accettato una raccomandazione relativa all’integrazione dei migranti.
Nel 2017, però, su base volontaria, l’Italia ha fatto una Revisione di medio termine scritta. In un intervento alla Camera dei Deputati a marzo 2019, il ministro plenipotenziario Fabrizio Petri, presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani, ha spiegato che l’Italia ha fatto questa revisione di medio termine «proprio perché c’era la candidatura al Consiglio per i diritti umani e abbiamo voluto far vedere che rispettavamo in maniera più rigorosa di quanto richiesto» (l’Italia ad ottobre 2018 è stata eletta per la terza volta al Consiglio. Il mandato è cominciato a gennaio 2019, ndr), ma il lavoro da fare è ancora molto.
Durante questa seduta, Petri ha spiegato che «noi arriveremo al terzo ciclo a novembre con un buon risultato, perché è stata fatta la legge sulle unioni civili su cui c’erano molte raccomandazioni, è stata fatta la legge sui minori accompagnati, abbiamo fatto la legge sulla tortura» ma che «siamo invece purtroppo carenti sull’istituzione di una Commissione nazionale indipendente. Abbiamo creato il Garante per i detenuti (c’erano alcune raccomandazioni per le persone private della libertà), ma non abbiamo ancora creato la Commissione nazionale». La mancanza di questa Commissione è un problema perché tutte le Commissioni del mondo si riuniscono, avviando un dialogo internazionale sui diritti umani, da cui l’Italia era ed è tuttora esclusa. Lo stesso Cidu, pur non volendo perdere la propria centralità, desidera che venga istituita.
Come stanno allora i diritti umani in Italia? Per rispondere a questa domanda vale la pena “spacchettarla” sui diversi temi, dai migranti alle condizioni dei rom, dalla tortura alla condizione femminile e delle persone Lgbti. A dirlo sono le Ong e le organizzazioni della società civile che hanno preparato rapporti dettagliati in vista dell’appuntamento.
Amnesty International, che ha dato il suo contributo alla Revisione in programma a novembre, ritiene che l’attuazione da parte dell’Italia delle raccomandazioni accettate nel 2014 sia stata ampiamente inadeguata, nonostante i progressi in alcuni settori, conferma Riccardo Noury, portavoce Amnesty Italia. «In alcuni casi strumenti come l’UPR rischiano di diventare rituali privi di efficacia, quando riescono bene sono invece occasioni in cui gli stati si interrogano in materia di diritti umani, con l’obiettivo di influenzare a vicenda dei cambiamenti. Sulla carta questo è un meccanismo che Amnesty approva e che consente agli altri stati membri di conoscere le realtà degli stati esaminati e per le ong (nei casi estremi) anche di presentare “rapporti ombra”. Per alcuni però è solo un fastidio a cui devono fare fronte con un esercizio di pubbliche relazioni e si traduce nel fatto che formalmente accettano raccomandazioni che poi non attuano o addirittura rifiutano direttamente. L’UPR serve se c’è un impegno serio ad attuare le raccomandazioni, a rendicontare con precisione come sono state attuate, senza inserire nei rapporti bugie».
Una Commissione nazionale indipendente ancora non c’è
La prima richiesta dell’Organizzazione, peraltro, come si legge nel rapporto, è proprio quella di istituire una Commissione nazionale indipendente per i diritti umani.
«Le ragioni per cui non è stata ancora creata sono opposte: c’è chi dice che la Commissione non serve, e chi invece ha paura che serva. Da un lato si dice che è uno spreco di soldi, con altre poltrone da occupare, dall’altro, invece, se poi questa commissione o authority funziona davvero spaventa. L’Italia però si è data l’obbligo di averlo tale strumento. Un organo distante dal governo e dai partiti, che possa analizzare la situazione dei diritti umani, serve certamente. Abbiamo il Garante dei diritti delle persone private delle libertà personali ma non basta, non è la stessa cosa».
Tra le raccomandazioni che Amnesty fa all’Italia c’è poi che venga modificata la definizione di tortura della Legge 110/2017 per allinearla alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti e domanda al Paese di garantire nel frattempo la piena attuazione di questa legge. Un’altra raccomandazione è quella che i membri di tutte le forze dell’ordine possano essere identificati nell’esercizio delle loro funzioni (cosa che finora è stata davvero impossibile da attuare) e che vengano sottoposti ad indagini rapide e imparziali da parte di un’autorità indipendente se necessario.
Migranti, rifugiati e armi: i guai iniziano in Libia e continuano nello Yemen
Una parte corposa del documento è dedicata ai migranti e ai rifugiati che sono sottoposti a continue violazioni dei diritti umani, anche nel contesto della cooperazione con la Libia per il controllo delle migrazioni. Si raccomanda all’Italia la modifica o sospensione del Decreto sicurezza e che le ONG possano continuare a contribuire al salvataggio delle persone in mare operando in un ambiente sicuro e favorevole.
Inoltre, viene segnalato il problema dell’emergenza abitativa e formulata la richiesta che si ponga fine a tutte le forme di segregazione razziale negli alloggi, sia nella legislazione che nella politica. Amnesty sottolinea la necessità di elaborare piani nazionali e locali perché cessi la segregazione dei Rom che vivono in “campi” autorizzati e vengano offerte alternative adeguate in linea con gli standard internazionali sui diritti umani.
Il rapporto suggerisce anche di smettere di fornire armi ai paesi in cui potrebbero essere utilizzate per commettere gravi violazioni dei diritti umani o violazioni del diritto internazionale umanitario, tra cui l’Arabia Saudita e altri Stati coinvolti nel conflitto nello Yemen. Il 58% delle esportazioni di armi avviene in paesi non NATO e in paesi in cui il rischio di conflitto è altissimo.
Un problema, quest’ultimo, segnalato anche da Women’s International League for Peace and Freedom in cui, in un rapporto congiunto presentato all’Onu, ha sollevato proprio tematiche quali le esportazioni di armi a paesi coinvolti nella guerra in Yemen, l’aumento delle licenze rilasciate in Italia per detenzione legale di armi, e il nesso fra la detenzione di armi da fuoco e i femminicidi. Già nel 2017, il Comitato Cedaw, organismo ONU preposto alla supervisione della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw), aveva espresso preoccupazioni riguardo alle esportazioni di armi dell’Italia e ha formulato raccomandazioni al riguardo.
«Ci aspettiamo che l’Italia affronti la Upr non con l’atteggiamento di chi vuole fare ‘bella figura’ di fronte alla comunità internazionale, ma piuttosto quello di chi è disposto a riflettere in maniera aperta su tutto quello che rimane da fare in materia di diritti umani e sul bisogno urgente di cambiare politiche imperdonabili, quali le esportazioni di armi dall’Italia verso paesi in guerra», afferma Patrizia Scannella, direttrice dello Human Rights Program della Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf) a Ginevra. La revisione universale periodica, per Wilpf, è l’occasione giusta per impegnarsi a dire basta all’orrore quotidiano inflitto alla popolazione civile in Yemen, causato dalle armi esportate dall’Italia a paesi coinvolti in quel conflitto. «In quanto attuale membro del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’Italia è tenuta ad “‘affermare i più alti livelli nella promozione e protezione dei diritti umani”. Ciò comporta il dover portare avanti, sia a livello nazionale che internazionale, politiche pienamente rispettose dei diritti umani» – continua Scannella. E «questo significa, per esempio, affrontare con approcci strutturali la violenza sulle donne in Italia, dare piena attuazione agli impegni in materia di lotta contro ogni forma di discriminazione, inclusa quella di genere, di realizzare una politica nazionale e internazionale sul tema “Donne, Pace e Sicurezza” e di sostegno a chi difende i diritti umani – incluse le organizzazioni che lavorano a supporto di migranti e rifugiati».
Anche la Cild, la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili attiva dal 2014, ha contribuito alla Revisione, illustrando le criticità del quadro italiano in un lungo e dettagliato documento e raccogliendo le proprie raccomandazioni “Joint submission”.
«Andremo a Ginevra in due diverse occasioni. A ottobre parteciperemo alle pre-sessions (o sedute preliminari) organizzate dalla ong Upr Info, dove avremo la possibilità di suggerire le nostre raccomandazioni ai recommending States. A novembre invece assisteremo alla revisione vera e propria: come organizzazione della società civile non avremo la possibilità di intervenire nel dibattito, ma sarà un’occasione per dialogare e fare advocacy con le delegazioni presenti, inclusa ovviamente quella italiana», afferma Flaminia Delle Cese, che per Cild lavora come Legal and policy officer e quindi si occupa di fornire assistenza legale (soprattutto nel campo del diritto dell’immigrazione) e svolgere ricerca.
La situazione dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati è di primaria importanza anche per la Coalizione perché l’Italia continua ad attuare politiche che portano a violazioni dei loro diritti umani e che non garantiscono standard coerenti e adeguati di trattamento, condizioni e accesso all’asilo. E poi c’è il tema della cittadinanza: si chiede all’Italia di modificare la legislazione per consentire la cittadinanza sul principio di ius soli o ius culturae. «Le raccomandazioni che il nostro Paese dovrebbe attuare sono molteplici – ci spiega Flaminia-: non solo in merito alla questione migratoria, all’introduzione dello ius soli come criterio per ottenere la cittadinanza ma anche in ambito di sicurezza, l’abolizione dell’uso dei taser nel lavoro di polizia; sulle minoranze, il pieno superamento del modello dei “campi” e della segregazione delle comunità rom; sui diritti Lgbti, l’adozione di una legge contro l’omo-bi-transfobia».
Le carceri, una vergogna italiana
Cild inoltre segnala il problema delle carceri, affollate, inadeguate e in cui si consumano violenze, suicidi (il numero di suicidi per 10.000 detenuti è aumentato dal 7,2 nel 2016 al 10,4 nel 2018).
Ma la Coalizione raccomanda all’Italia anche di rivedere la legislazione nazionale per attuare le disposizioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, di proteggere le vittime di violenza, garantire la parità di genere in ogni ambito. Infine, una parte del documento redatto da Cild è dedicata alla trasparenza e all’accesso alle informazioni, perchè la Freedom of Information Act (Foia) è ancora molto indietro rispetto agli standard internazionali, e in ultimo alla privacy, non sempre garantita dagli operatori di telecomunicazioni e dalle autorità che possono disporre dei nostri dati senza avere il permesso da un organo preposto.
«In questa fase di cambiamento – conclude Flaminia – l’Italia dovrebbe innanzitutto iniziare a rapportarsi in maniera nuova con gli organi delle Nazioni Unite, impegnandosi a rispettare il diritto internazionale e il ruolo delle organizzazioni internazionali».
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