Di chi è il mio corpo?
Suicidio medicalmente assistito, Disabilità e Aborto sono temi che emergono dal dibattito pubblico ogni qualvolta avvengono eclatanti fatti di cronaca come il triste caso di Dj Fabo (Fabiano Antoniani) il quale, dopo un incidente stradale che nel 2014 lo ha reso cieco e tetraplegico, grazie alla volontà della sua famiglia e al prezioso aiuto di Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, si è dovuto recare in Svizzera per poter dar seguito alle proprie volontà. Questi temi affiorano nel dibattito pubblico sull’onda emotiva sollecitando reazioni istintive e scomposte, tornando però in quella terra di mezzo dell’indecisione quando i media, esaurita la fase emotiva, stabiliscono di sottoporre all’opinione pubblica nuovi temi. Ma queste sono questioni di primaria importanza in quanto vanno ad interessare i diritti civili dell’individuo; temi che richiederebbero un dibattito approfondito e animato da una pluralità di voci andando oltre le barricate pro o contro costruite sulla scena mediatica e nel dibattito politico.
Questi temi non vanno affrontati solo dal punto di vita valoriale ma anche da quello del diritto di ogni soggetto di decidere sul proprio corpo e dunque su se stesso. Il corpo è speciale in quanto è attraverso di esso che separiamo il nostro spazio dal resto del mondo; è anche ciò attraverso cui agiamo, pensiamo, ci esprimiamo e siamo individui unici e irripetibili. Quello che decidiamo di fare con il nostro corpo è un qualcosa che capita a noi che, nel bene o nel male, vivremo in prima persona. Controllare il corpo di un altro individuo significa dunque limitarne l’autodeterminazione e di conseguenza il suo essere protagonista nel mondo. L’inizio della vita, la sua fine e le condizioni di chi vive il mondo in un corpo disabile devono dunque essere approfondite attraverso questa particolare chiave di lettura.
Pur essendo la pratica dell’aborto garantita dal servizio sanitario nazionale la sua reale messa in opera è sottoposta a pressioni più ideologiche che mediche. Chi si oppone alla pratica abortiva muove infatti le proprie motivazioni essenzialmente su tre direttrici: il diritto alla vita del feto (rifacendosi ai dettami religiosi), alla sindrome post-traumatica che si andrebbe a riversare sulla donna dopo l’aborto e l’embrione come essere vivente portatore di diritti. Secondo gli anti abortisti l’embrione è portatore di diritti civili, di conseguenza l’aborto è da considerarsi un omicidio, un reato da punire e non da legalizzare. Ma se l’embrione è portatore di un diritto, tale diritto è gerarchicamente superiore o inferiore a quello della donna che lo porta in grembo?
I pro-vita inoltre intravedono nella pratica abortiva la certezza di un danno psicologico permanente in quanto associano all’aborto una consequenziale sindrome post-traumatica causata dal “certo rimpianto di aver ucciso il proprio figlio, una tristezza inconsolabile che la segnerà per tutta la vita”. La legislazione corrente consente al personale medico l’obiezione di coscienza senza però garantire la certezza della pratica medica: se in un ospedale di una città di piccole dimensioni tutta la struttura medica proclama la propria obiezione la gestante si troverà nella condizione di doversi trasferire in un’altra località o a ricorrere all’aborto clandestino, pratica potenzialmente dannosa per la salute e la vita della gestante.
L’aborto chirurgico può essere così considerato l’ultimo baluardo di chi si oppone alla pratica medica perché sposta l’equilibrio dalla donna all’operatore sanitario. Solo con l’aborto farmacologico, ovvero con la somministrazione della pillola RU486, si restituirà alla donna la libertà di decidere del proprio corpo e del proprio futuro (pur consentendo all’operatore sanitario il diritto/dovere di informare e consegnare il farmaco).
In nessun ordinamento l’individuo è riconosciuto come padrone assoluto del proprio destino biologico pur concedendo alcuni qualche margine di autodeterminazione nella fase terminale. Sono pochi infatti gli Stati che non prevedono la punibilità per quanto concerne l’assistenza al suicidio (Svizzera, Canada ed alcuni Stati degli Usa come California, Montana e Vermont) o addirittura casi di omicidio del consenziente come Olanda, Belgio e Lussemburgo.
In molte nazioni formalmente all’individuo è riconosciuto solo il diritto al rifiuto delle cure vietando con sanzione penale l’assistenza al suicidio. Se nel primo caso con l’interruzione volontaria della cura il paziente si lascerà morire, nel secondo invece, con il supporto di un famigliare o di una terza persona, al malato verrà somministrata una sostanza che, addormentandolo, lo accompagnerà alla morte senza soffrire. Nel caso però di un trauma fulmineo che porti il malato allo stato vegetativo senza aver precedentemente lasciato le proprie volontà, nessuno potrà prendere tali decisioni (neanche il convivente o la famiglia) costringendo così i soggetti interessati a prendere decisioni estreme devastanti che potranno avere anche conseguenze penali. Per ovviare a tali divieti in molti casi il malato viene trasferito in nazioni estere, dove il fine vita assistito è legale.
In passato i corpi delle persone disabili sono stati visibili in pubblico quali fenomeni da baraccone, scherniti e collocati ai margini della società allo scopo di fornire una sorta di rassicurante illusione relativamente alla propria normalità.
Oggi la situazione è diversa grazie ad una diffusa presa di coscienza sancita sul piano formale da leggi, Costituzioni e convenzioni internazionali. Pur apparentemente attenta e rispettosa delle diversità, la società occidentale propone però modelli dove per essere vincenti è necessario investire su se stessi (sia sul corpo che sulla mente) assumendosi in prima persona la responsabilità del proprio destino. L’autostima e la sicurezza diventano così sinonimi di aver un corpo perfetto, che può e deve essere ritoccato, migliorato e potenziato; facendoci però sentire individualmente fragili, vulnerabili e in alcuni casi disadatti. Chi si troverà ai margini della “normalità” si sentirà così escluso in partenza.
Tutti gli individui, non importa se normodotati o meno, se vecchi o giovani devono invece essere messi nella condizione di poter investire su se stessi come enunciato nella nostra Costituzione, all’articolo 3 “… E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ….” e all’articolo 4 “… Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società“. Eguaglianza non significa dunque solo porre formalmente tutti sullo stesso piano ma mettere ogni individuo nella condizione di realizzare le proprie aspirazioni indifferentemente dal personale punto di partenza.
Aborto e fine vita sono temi che dividono in fazioni l’opinione pubblica in quanto se alcuni ritengono di poterli trattare attingendo unicamente dal proprio patrimonio tradizionale di certezze e credenze altri si sentono invece eticamente sfidati. La politica dovrebbe legiferare nonostante l’inconciliabilità delle vedute escludendo la pretesa che si avanzino verità assolute, ma ciò non avviene in quanto sono presenti partiti e movimenti che, per vicinanza ideologica o per meri interessi politici, sposano teorie e principi di parte. Se il principio laico implica per essenza il momento comunicativo con la messa in discussione delle rispettive tesi, nel principio religioso invece la verità è una dottrina che non si può mettere in discussione. Purtroppo sono innumerevoli gli esempi dell’impossibilità di legiferare su specifici temi a causa sia dell’opposizione per partito preso che per motivazioni ideologiche.
Ma quando c’è la volontà politica di dare risposte ai cittadini su temi delicati il Parlamento in poche sedute con maggioranze inedite è stato in grado di legiferare. La legge sul Biotestamento approvata a dicembre del 2017 ne è un esempio. La nuova legge stabilisce infatti che ogni “persona maggiorenne, capace di intendere e volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le Disposizioni Anticipate di Trattamento (Dat), esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Le Dat, sempre revocabili, risultano inoltre vincolanti per il medico esentandolo da ogni responsabilità civile e penale. Possono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata, con sottoscrizione autenticata da un notaio o altro pubblico ufficiale, da un medico dipendente del Servizio sanitario nazionale o convenzionato. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, possono essere espresse attraverso videoregistrazione. In caso di emergenza o di urgenza “la revoca può avvenire anche oralmente davanti ad almeno due testimoni”.
Nessun commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.