VIGILI URBANI E DUNQUE LAVORATORI A RISCHIO, ALTO RISCHIO ANZI ALTISSIMO
La recente polemica sul presunto assenteismo nulla toglie al problema della salute del lavoratore a rischio come quello rappresentato da questa categoria. Se i cittadini […]
Intanto metto le mani avanti: il titolo è provocatorio. Certo, nell’epoca della demagogia populista webcratica e socialmediadipendente, che tutto spacca in due con l’accetta semplificatoria e assolutizzante, una tal sparata tanto perentoria quanto banale riscuoterebbe ampio successo di “like” o “retweet” e donerebbe stimoli e linfa per nuove propagande alla conquista di consensi, compresi tour in camper da nord a sud e hastatg precompilati con promesse di riforme prossime venture.
E allora, per democristianizzare un tantino, ci ho messo il punto interrogativo, non si sa mai.
Tutto parte dai vigili assenteisti di Roma, gran cattivoni. Siamo tutti malati di “immediatismo”, perciò alla faccia di Buddha e relativa “sospensione del giudizio” per prendersi la briga di approfondire, conoscere, guardare da diverse prospettive, per poi giungere a qualcosa di simile a, scusate il termine, “capire”, di getto ci siamo lanciati su web e social (al contempo i giornalisti su giornali e tv) a solennizzare nostre definizioni conclusive dell’accaduto.
Subito chiunque ha sentenziato contro quell’83erotti% di vigili romani; subito qualcuno s’è affrettato a incolpare (o discolpare) qualcun altro; subito uno ha colto l’occasione per annunciare, dichiarare, promettere gran cambiamenti e buon 2015 a tutti.
Presto sui media, in ripresa di istituzioni e politica, si è corsi a disseppellire il mai purtroppo abbastanza sepolto “modello Brunetta”, quello dei tornelli (i tornelli!). E dei “fannulloni”, appunto.
Molti strateghi della comunicazione politica han cavalcato la notizia fin dai primi vagiti, spianandosi la strada per future campagne elettorali. E a proposito di politica e di relatività della vita, perfetto a mio parere il contributo di Stefano Iannacone qui su Gli Stati Generali.
Per non farsi mancare niente, da Napoli, ecco pronto il sensazionalismo da banco scagliato con l’effetto contro quei farabutti degli spazzini: a Capodanno se ne contano in malattia ben 200, colpevoli, a rigor di logica causa-effetto, delle montagne di monnezza non raccolta per strada – colpa loro, mica di disservizi, disorganizzazione, camorra…
Sulla testata di turno s’è scomodato anche l’intellettuale di rilievo o l’importante studioso, i quali l’han presa alla larga, con profusione di gergalismi d’accademia, spiegandoci che gli “apparati repressivi”, i “sistemi sanzionatori”, i “processi indagatori”, le “attestazioni di responsabilità”… Insomma, oltre le vette di alto lirismo cui ci elevano i nobili del sapere, alla fine anche per loro parrebbe che non si va da nessuna parte, che siamo italiani, una società da strapazzo, e mica ci possiamo aspettare responsabilità o coerenza, no? In poche parole, scetticismi a oltranza. E populismi a rimorchio (via web e social).
Nel dibattito generale, la questione assenteisti + fannulloni, partita dai vigili romani e rimbalzata su scala nazionale con richiamo sempreverde della mannaia brunettiana, balla in sostanza tra le regole, le norme, le leggi (e connesse sanzioni e pene più o meno certe) da una parte, e i furbi, i trasgressori, gli spregiudicati, gli stronzi, che quelle regole infrangono, dall’altra.
Sembrerebbe, stando a questa prospettiva, che se la mettiamo sull’imposizione – “devi/non devi fare…” – tutto si risolve, tutto si regola di conseguenza. Un’opinione che appare comune e diffusa è che la nostra società e il mondo del lavoro funzionerebbero a meraviglia con l’applicazione della sola catena obbligo – controllo – sanzione.
Qualcuno la pone, relativamente al pubblico impiego, anche su un piano più etico, con cenno al senso civico, alla cultura del servizio (pubblico, magari pure essenziale). Senz’altro di qui bisogna passare, tornando a nutrire e coltivare questi semi ormai rari, ripartendo da zero, dal significato della convivenza sociale, dell’importanza come dipendenti pubblici di sentirsi speciali e non privilegiati, memori che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore” (cit)*.
Ma la faccenda è più complessa, poiché parliamo di lavoro e di esseri umani. E non si può liquidare il problema dell’alienazione nel o della fuga dal lavoro (e conseguenti trucchi e astuzie per evitare, sparire, scaricare, tirare a campare, avvantaggiarsi, fottere/ersene…) con il dovere di passare dai tornelli. Stiamo parlando – oltre che di senso civico ed etico, come già detto – anche di motivazione al lavoro, senso di appartenenza, soddisfazione e gratificazione…
Tra colleghi consulenti e formatori in organizzazioni pubbliche e private ci siam sempre detti che il punto è la dimensione umana, non la burocrazia o le norme: “Se quelli erano schifati dal lavoro e demotivati, perciò assenteisti e fannulloni, costringerli fisicamente a starsene seduti alla scrivania o dietro lo sportello non cambia le cose, anzi: quelli sempre schifati e demotivati resteranno, ma saranno pure assai più incazzati!”, ci dicevamo.
La motivazione al lavoro è stata indagata in lungo e in largo da sociologi, antropologi, psicologi, ingegneri, imprenditori, manager, sindacalisti. Riguarda tanti aspetti, alcuni dei quali se tenuti in conto nel dibattito generale di cui su, sarebbero di notevole arricchimento per come la vedo io.
Tralasciando i motivi specifici (ripicche, scioperi e tutto il resto) della questione di Roma, una domanda che sarebbe stato interessante ascoltare in questi giorni è: “Che cosa potremmo pensare di fare per rendere meno assenteisti e fannulloni i dipendenti oltre a reprimerli e castigarli?”
Le persone si sentono più motivate se al lavoro ricevono riconoscimenti o gratificazioni. Vale a dire che, al di là dei banali e spesso inutili “riconoscimenti economici”, sono i contesti sociali, fatti di umanità e autenticità nelle relazioni, a fare la differenza. Mentre il nostro mondo del lavoro è assai spesso pervaso da cinismo e cattiveria, nella battaglia continua per il potere, che si tratti di vertici e denaro o di posto al sole nelle grazie del capoufficio.
Inoltre, le persone sono più motivate se possono essere autonome, se possono assumersi responsabilità e se hanno margini decisionali. Eppure costruiamo le nostre impalcature organizzative sull’annullamento dell’indipendenza, sulla castrazione dell’intraprendenza. Basiamo tutto su premi e punizioni, contagiando chi lavora con il virus dello scaricabarile e delle scorciatoie.
Non solo. Le persone, poi, si sentono più motivate se al lavoro ci sono le condizioni per crescere umanamente e professionalmente, se per esempio hanno occasioni di formazione o aggiornamento. Invece diamo tutto per scontato, trascuriamo l’importanza dell’arricchimento culturale (un po’ meno, in certi settori, quello specialistico, per fortuna). Spesso ci aspettiamo che la sola esperienza (lo scorrere del tempo) maturi competenze, capacità e attitudini.
Di “fattori motivazionali” ce ne sono altri, ma quello che oggi avrebbe una portata decisiva è ciò che concerne l’equilibrio tra vita e lavoro. Laddove sarebbe opportuno favorire, anche con sistemi di welfare (nidi, babysitter, telelavoro, spesa, salute, trasporti ecc), l’armonizzazione tra tempi del lavoro e quelli del privato, abbiamo invece freddamente richiamato all’ordine e al rispetto burocratico di codici e regole, meglio se controfirmati dal responsabile legale.
Mi rendo conto dell’impopolarità di queste riflessioni in un contesto in cui “se il lavoro ce l’hai te lo tieni e lo svolgi al meglio”, “c’è chi si fa il mazzo e questi si permettono di fare gli assenteisti o i fannulloni” e così sentenziando. Ma continuo a essere convinto che, nella caccia alle streghe che si scatena di volta in volta, dovremmo altrettanto automaticamente contribuire con opinioni complementari sul tema, per ampliarne lo sguardo e approfittare delle concomitanze mediatiche per portare luce anche su aspetti più culturali, forse alternativi, ma il cui unico fine è migliorarci la vita. Anziché trovare scuse per metterci in mutua.
* Costituzione della Repubblica italiana, articolo 54.
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Concordo nelle linee generali con l’ articolo che affronta il tema anche con un taglio propositivo e non solo con l’ espressione del giudizio, di norma corrosivo. Certo, il riconoscere senso e valore al proprio lavoro è la chiave di tutto. Ciò dipende naturalmente da chi ha responsabilità dirigenziali ma anche dal singolo. Infatti, in un’ epoca ( brutta) in cui il soggetto è debordante non si può tralasciarne le personali responsabilità. Condivido soprattutto il fatto che siano non i premi nè le punizioni a rendere migliore i servizi, ma la percezione e la passione di e per ciò che si fa. Richard Sennet ha insistito molto nei suoi scritti sull’ importanza e sull’ efficacia del lavorare insieme per un obiettivo – io preferirei dire una funzione- comune. Magari una funzione orientata all’ interesse generale . Temo però che questa idea sia considerata un po’ retrò…
Grazie per questa tua considerazione. Sul fatto che un’idea (valida come quella che descrivi) possa essere ritenuta “retrò” non mi preoccuperei, mentre insisterei sul concetto di interesse generale, il quale potrebbe essere chiarito meglio se, come dici tu, si focalizzassero nell’azione quotidiana “obiettivi” comuni, o “funzioni”. Oppure potremmo parlare, per rendere la cosa più attraente da certe prospettive, anche di “benefici” o addirittura “utilità” comuni, esplorando costruttivamente i connotati del “tornaconto personale” (chissà se si riuscisse poi a farlo coincidere con quello “generale”…).