[*] La paga è compresa tra tre e cinque euro all’ora, il lavoro può durare fino a 15 ore al giorno, domeniche comprese, gli alloggi sono spesso appartamenti fatiscenti o casolari abbandonati dove un posto letto costa fino a 200 euro al mese, in tanti casi il reclutamento avviene la sera con un messaggio su whatsapp o una telefonata che indica la pompa di benzina, la rotonda, il parcheggio di un centro commerciale dove farsi trovare pronti all’alba per essere caricati sui furgoni dei capi-squadra. Sono queste, in sintesi, le caratteristiche del caporalato impiegato nelle campagne e negli allevamenti della Romagna, e in particolare delle province di Ravenna e Forlì-Cesena. Un fenomeno, quello del caporalato, che, come emerge dall’ultimo rapporto “Agromafie e caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto Flai-Cgil, colpisce tra il 15 e il 20% degli oltre 30mila lavoratori attivi nei due territori romagnoli.
Nel ravennate, che detiene la superficie coltivata più estesa in Emilia-Romagna ed utilizzata per viticoltura e prodotti frutticoli, le stime parlano di circa 3 mila braccianti costretti a lavorare in condizioni occupazionali precarie: c’è il lavoro nero tout court – che riguarda coloro i quali operano nelle campagne senza contratto – e accanto a esso convivono altre forme di illegalità e sfruttamento.
La prima riguarda i casi in cui esiste un contratto, ma non è regolare e il lavoratore è vittima di una vera e propria truffa. Non mancano episodi in cui al bracciante raggirato vengono addirittura chiesti migliaia di euro per ottenere la regolarizzazione del rapporto lavorativo. Come è capitato ad Abdul (nome di fantasia): «L’accordo prevedeva un salario mensile di 1.000 euro e la messa in regola con il permesso di soggiorno, ma, dopo mesi di lavoro, le richieste di ricevere la cifra pattuita e di essere regolarizzato avevano sempre la stessa risposta: prendi questo acconto (erano 100/200 euro al mese) e pazienta per il resto. Fino al momento in cui mi è stato detto minacciosamente che per ottenere la regolarizzazione della mia posizione avrei dovuto pagare una somma di denaro di 5.000 euro».
La seconda forma di sfruttamento è correlata alla durezza del lavoro ed alla sua bassa remunerazione. Emblematico, come racconta una inedita testimonianza raccolta in occasione del Rapporto “Agromafie e caporalato”, il caso di Alfonsine, comune di circa 12 mila anime nella provincia di Ravenna: «Alfonsine è un’area che nell’ultimo quindicennio ha visto chiudere molte aziende manifatturiere con un travaso di una parte di queste maestranze nel settore agricolo. Questo sovrappiù di manodopera – aggiuntasi a quella straniera stanziale ed a quella ad alta mobilità – ha fatto decrescere i salari e quindi aumentato la concorrenza al ribasso tra i braccianti e avventizi agricoli». Una concorrenza che vede contrapposti italiani, stranieri stanziali da molti anni e stranieri che arrivano per le raccolte e poi tornano dai territori di residenza abituale.
La terza via della privazione di diritti è quella più pesante, il caporalato. «Anche se – continua il testimone – non bisogna aspettarsi il caporale minaccioso, senza scrupoli, che non paga i malcapitati per settimane e mesi e poi ritorna nel suo paese per godersi l’illecito guadagno. Sono caporali che fanno leva sulla persuasione, sul coinvolgimento delle persone che assoldano».
Di fatto i caporali – quelli che puntano sulla persuasione e quelli che fanno leva sulla minaccia e sulla paura del non ingaggio – si trovano, come riporta il Rapporto, allineati su un punto cruciale: la decurtazione del salario, fortemente scostato da quello previsto nei contratti nazionali di categoria.
I caporali persuasori, dei 9,5 euro lordi previsti per un’ora di lavoro bracciantile – circa 7 euro netti – ne pagano 4 l’ora, compreso il trasporto. Mentre i caporali minacciosi ne erogano 3-3,5 l’ora, ma il costo del trasporto è a parte e quindi alla fine al lavoratore rimangono in tasca 3 euro per un’ora di attività di raccolta: nel primo caso il salario può ammontare a 40/50 euro al giorno, nel secondo a 25/30.
Anche nelle campagne della provincia di Forlì-Cesena la componente bracciantile precaria oscilla, come indica il rapporto della Flai-Cgil, tra il 15 e il 20 per cento. Coinvolge, diversamente da quella attiva nel ravennate, una componente maggiormente stanziale, formata da braccianti marocchini, romeni, bulgari ed albanesi. A questi si affiancano gli stagionali, provenienti da altre province o, in pullman in squadre da 50-70 lavoratori, da Romania, Macedonia e Bulgaria.
Le condizioni di lavoro a Forlì-Cesena per una parte seppur minoritaria di lavoratori immigrati è da considerarsi indecente e ascrivibile a forme para-schiaviste. Al salario da fame, ad orari di lavoro infiniti, all’assenza di ferie, malattia ed ogni altra forma di tutela, si aggiungono le vessazioni di gruppi organizzati di caporali italiani e stranieri. «Sono caporali –conferma un intervistato – che hanno rapporti di lavoro con imprenditori agricoli di Rovigo, Mantova, Parma, con una capacità organizzativa anche extra-regionale, in grado di spostare manodopera in modo molto veloce e che nel giro di poche ore riescono pure ad affittare locande ed alberghi modesti dove far alloggiare i braccianti coinvolti».
Gli organizzatori trovano luoghi per far pernottare i braccianti dappertutto, pagano in contanti, utilizzando case coloniche in campagna o appartamenti dati in locazione dalla cooperativa o dalla società di servizi per l’agricoltura create ad hoc e che poi subaffitta il posto letto a 150-200 euro a lavoratore.
A governare il caporalato ci sono organizzazione sovranazionali strutturate e nel cesenate la matrice è romena, fondata su società fittizie e cooperative senza terra, con una configurazione piramidale ed una struttura multinazionale, che controlla direttamente anche caporali di Paesi diversi che a loro volta reclutano braccianti appartenenti alla loro medesima comunità. Al vertice dell’organizzazione, come è noto, c’è da tempo una donna caporale, sempre di origine romena, che, nonostante abbia alle spalle una scia di denunce, continua a fare il bello ed il cattivo tempo tra i lavoratori agricoli, potendo contare su gruppi di caporali di prossimità, operativi in parte in Romania ed in parte a Forlì-Cesena: i primi sono addetti al reclutamento in patria e dunque a proporre salari romeni per svolgere l’attività in Italia, i secondi a governare le squadre sul terreno provinciale.
Accanto alla macrostruttura romena, ci sono altre forme di caporalato operative nelle comunità marocchine, pakistane e bangladesi. Tra queste, quella più articolata e con spiccate capacità manageriali e dunque ad alto potenziale delinquenziale, è quella marocchina. Capace di estrinsecare la propria attività nei circuiti illegali del territorio provinciale/interprovinciale ed anche transnazionale, ossia nel paese di esodo migratorio.
«Sappiamo – riferisce un altro intervistato agli autori del rapporto “Agromafie e caporalato” – che ci sono trafficanti che a primavera tornano al loro paese a reclutare braccianti per le raccolte estive o autunnali/invernali: si fanno pagare in media 6-7mila euro da quanti accettano l’ingaggio, promettendo un’occupazione sicura ed un guadagno a fine stagione almeno 4 o 5 volte superiore al costo sostenuto per arrivare a destinazione». Dove ben presto fanno i conti con una realtà ben diversa da quella promessa, scoprendo di essere stati ingannati da trafficanti che si dileguano non appena finalizzata la “tratta”.
È quello che è accaduto a Jago (nome di fantasia), bracciante bulgaro, che ha così raccontato la sua vicenda ai sindacalisti della Flai-Cgil: «Sono di Stara Zagora e sono stato reclutato da una agenzia di Sliven per venire a fare la stagione in Italia e quindi a Forlì-Cesena. Sono arrivato con un contratto fatto in Bulgaria che prevedeva una paga di 700 euro mensili. Ero felice. Vengo portato in un campo con altri compaesani, lavoro per due mesi, ma senza essere pagati. Passano sei mesi e, nonostante le rassicurazioni secondo cui avremmo avuto tutto allo scadere dei primi tre mesi, non vedo alcun salario. Dopo otto mesi, assieme ad alcuni miei colleghi e dopo aver parlato con il sindacato, abbiamo deciso di denunciare la società». Siamo di fronte ad imprese senza scrupoli, che, come accusa Arturo Zani, già segretario generale Flai a Cesena, «in tantissimi casi fanno capo a società di comodo o a false cooperative con sede legale nel nord est ed a Verona: sarà una coincidenza, ma, pur in assenza di prove schiaccianti, noi crediamo che dietro queste dinamiche di “ingegneria societaria” si possa nascondere la criminalità organizzata interessata a riciclare denaro sporco».
E in tutto ciò le associazioni di categoria del mondo agricolo che posizione hanno assunto? «Orientate a negare il fenomeno – risponde il rappresentante sindacale della Flai-Cgil – o a mettere in pista la teoria della mela marcia, esplicitata come un mantra in ogni occasione, ma, pur avendo perfetta contezza di quali sono le aziende o le coop spurie o le società di servizi, mai tradotta in fatti concreti, come denunce alle autorità competenti o espulsioni delle cosiddette mele marce per ripulire il cesto».
[*] di Marco Amendola (video), Fabrizio Annovi (infografiche) e Alberto Crepaldi (testi e interviste)
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