Cultura
Tindersticks e Einsturzende Neubauten tra le macerie della Grande Guerra
Raccontare la guerra in musica è una sfida. Raccontare il primo conflitto mondiale, così lontano
nel tempo, lo è ancora di più. Nel 1985 i Pogues, irlandesi folk punk di stanza a Londra, incidevano
una lacerante versione, non la prima ma senz’altro la più celebre, di And the Band Played Waltzing
Matilda, una canzone scritta quindici anni prima dal cantautore scozzese, australiano d’adozione,
Eric Bogle. Il brano racconta la cruenta e fallimentare campagna di Gallipoli, nella quale francesi
e inglesi cercarono senza successo, con perdite disastrose nel corso di lunghi mesi tra il 1915 e
il 1916, di prendere il controllo dello Stretto dei Dardanelli per far capitolare Costantinopoli e
l’Impero Ottomano e ristabilire i contatti via mare con la Russia. La canzone, attraverso gli occhi
di un giovane vagabondo autraliano, arruolato, massacrato e tornato in patria vivo per miracolo
ma privo di gambe, è una meditazione sugli “eroi dimenticati di una guerra dimenticata”. Un
paio di anni prima dei Pogues, Paul McCartney affrontava l’argomento dal lato più sentimentale,
raccontando in Pipes of Peace, con i toni poetici di una consapevole naiveté buonista, un celebre
episodio della Grande Guerra, la tregua tra esercito britannico ed esercito tedesco del Natale
1914. Si tratta di due modalità piuttosto classiche nel narrare la più irraccontable tra le tragedie:
la canzone antimilitarista da un lato, il quadretto pacifista che descrive una inattesa esplosione di
umanità in un contesto crudele e insensato dall’altra.
In queste settimane, sul tema della Grande Guerra, sono usciti due lavori per certi versi molto
simili tra loro, entrambi legati alle celebrazioni del centenario del conflitto e frutto di commissioni
istituzionali. I berlinesi Einsturzende Neubauten pubblicano Lament, non solo un album ma
anche una articolata performance concepita nel 2013 in vista di un evento celebrativo tenutosi a
Diskmude, in Belgio, lo scorso 8 novembre, spettacolo che in questi giorni arriva anche sui palchi
italiani. Gli inglesi Tindersticks, il cui pop cameristico d’autore venato di noir ha una storia parallela
e ventennale di musiche per il cinema, in particolare nel sodalizio con la cineasta francese Claire
Denis, hanno invece pubblicato Ypres, album strumentale che documenta le tracce commissionate
dal Flanders Fields Museum con sede nell’omonima cittadina belga (rasa al suolo durante il
conflitto e la cui ricostruzione si è conclusa solo pochi anni fa, resa tristemente celebre dall’utilizzo
sperimentale del gas nervino – l’iprite, appunto) allo scopo di fornire un commento sonoro continuo
alle sale dell’esposizione permanente. Non si tratta degli unici progetti musicali a tema: il prossimo
20 dicembre il gallese John Cale, componente originario dei Velvet Underground, eseguirà in
anteprima mondiale a Mesen, ancora in Belgio, musiche ispirate anch’esse alla celebre tregua
natalizia del 1914.
C’è da chiedersi, domanda più che legittima in un periodo storico in cui la popular music viene
accusata di esser ormai concentrata sulla propria musealizzazione, se la dimensione istituzionale
e l’ambito della memorialistica siano davvero le modalità più autentiche e libere per raccontare
l’irraccontabile. Se non si corra il rischio, insomma, di produrre qualcosa di troppo ingessato e
magari viziato da un velleitario tentativo di accreditarsi presso gli ambienti della musica colta.
L’ascolto dei due dischi smentisce quest’ultima ipotesi. Entrambi i progetti, innanzitutto, hanno
a che fare con la memoria dei luoghi, e anzi si sono innescati “in loco”. Blixa Bargeld, leader
degli Einsturzende Neubauten, ha affermato di essersi convinto ad accettare l’incarico dopo aver
visitato le trincee e il museo di Dirkmude. Stuart Staples, autore delle musiche di Ypres insieme
a Dan McKinna, ha deciso di accettare pure lui dopo aver visitato il cimitero di guerra tedesco di
Vladslo, anch’esso dei pressi di Dirkmude. Staples ha poi trovato ulteriore ispirazione nella lettura
del poema di Robert Graves Goodbye to All That, nel War Requiem del compositore britannico
Benjamin Britten e nei Seagram Murales di Mark Rothko esposti alla Tate Britain di Londra. Una
suggestione, quella pittorica, che si sposa perfettamente all’idea, espressa dal frontman nelle note
di presentazione del disco, di “creare l’aria degli spazi” in cui la musica avrebbe poi dovuto essere
ascoltata. Ogni singola sezione dell’opera, in un lento e minimale evolversi spiraliforme di archi,
pianoforte e fiati, a tratti sull’orlo del silenzio, è stata scritta nella tonalità corrispondente a quella in
cui vibrava la stanza destinata ad ospitarla.
Sul finale, presumibilmente per evitare che Ypres possa
sembrare un requiem privo di speranza e riscatto, Sunset Glow chiude con una nota di luminosità
che riesce a farsi strada tra le coltri dell’inevitabole cupezza che caratterizza l’opera.
Lament è un lavoro altrettanto ambizioso: un multitesto nel quale confluiscono rivisitazioni di inni
nazionali, registrazioni di soldati sul campo, materiali storici variegati e metalliche dissonanze
che evocano, con il distacco della maturità, la particolare concezione di musica concreta maturata
dal gruppo nella Berlino anni Ottanta, tra le macerie ideologiche (il nome del gruppo significa,
letteralmente, “nuovi edifici che crollano”) della Guerra Fredda ormai in procinto di estinguersi
e l’iconoclastia del dopo punk in veste di industrial music. Una performance che prende il titolo
dalla forma musicale, poi in parte disattesa, pensata originariamente per la piéce, e che ripercorre
epoche e suggestioni senza rinunciare del tutto al gusto desacralizzante della band. Ma sempre con
un rigore di fondo consono al contesto, al punto che c’è chi, nelle prime recensioni, ha lamentato la
veste un po’ troppo paludata rivestita per l’occasione dall’ensemble.
In entrambi i casi emerge la volontà di utilizzare forme “alte” in maniera personale, senza strafare,
con misurata parsimonia e con la consapevolezza che l’utilizzo di determinati codici espressivi non
debba implicare necessariamente un imborghesimento creativo. Soprattutto, le due opere sembrano
suggerire questo: raccontare attraverso semplici canzoni l’evento che cento anni fa innescava le
dinamiche distorte e dolorose alla base di tutto il secolo ventesimo rischia di ricondurre ai cliché
di cui si diceva in principio di articolo: per quanto nobili e degnissimi di attenzione, comunque
insufficienti a dipingere un quadro così vasto. Molto meglio, forse, raccontare il non raccontabile
attraverso silenzi, frammenti, suggestioni e stanze sonore. Senza dover ricorrere alla costruzione di
monumenti verbali, cercando piuttosto di rendere vivo e far risuonare nel presente lo spazio fisico
del ricordo, sui palchi e nei musei.
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