Teatro

Workcenter Grotowski and Richards: ovvero, i fondamentali

22 Ottobre 2017

A volta fa bene tornare ai “fondamentali”.

Riscoprire – o incontrare per la prima volta – quei capisaldi che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo. Affrontare la sapienza, la consapevolezza, il sapere di chi ha percorso le grandi innovazioni, i cambiamenti, dando davvero senso alla parola “ricerca”. Così, per pochi giorni, è stato a Roma il Workcenter Grotowski and Thomas Richards, grazie all’iniziativa dell’Istituto polacco di cultura. Il gruppo, si sa, è frutto del compimento umano e artistico del maestro Jerzy Grotowski, che si ritirò a Pontedera nel 1986 per sviluppare e approfondire lo studio sull’attore.

Allora, nella sala affrescata del bell’edificio vicino Piazza Cavour, ha preso vita The living room, di fronte a un pubblico disposto su poltrone, sedie, divani. The living room ha una doppia accezione: da un lato, proprio il “salotto”, o il soggiorno, il luogo in cui si vive e dove viene allestito lo spettacolo; dall’altro potremmo dire “stanza vivente”, o stanza che prende vita. ed è quel che accade grazie a Thomas Richards e agli straordinari interpreti del Workcenter. Ogni spettatore doveva portare, come si conviene, un piccolo omaggio, un dono, qualcosa da mangiare o da bere: siamo invitati a un salotto, elegante e accogliente.

The living room

Mi ricordo, ancora, passati tanti e tanti anni, della prima volta in cui vidi il Workcenter a Pontedera, una “Action” ancora indimenticabile: un’azione, semplicemente, eppure talmente forte, trascinante, emozionante. Un’azione che iniziava, paradossalmente, molto prima dell’effettivo inizio, già con la telefonata di invito: ti aspettiamo tra un mese (o non ricordo quanto) a Pontedera. E in quel momento, dunque con grande anticipo, il pensiero si predisponeva, l’animo si apriva, la curiosità si attivava. Poi il viaggio in treno, il casolare che ospitava il Workcenter. «Il maestro c’è?», chiedemmo intimoriti, sì, c’era Grotowski, da qualche parte, ma non lo vedemmo. Poi il tavolo in cucina, i pochi invitati seduti a tentare imbarazzati commenti su ciò cui avevamo assistito alla presenza di un giovanissimo Mario Biagini.

Le stesse sensazioni, a distanza di tempo, ho provato nel recarmi all’Istituto Polacco. Eravamo invitati a qualcosa che non possiamo definire “spettacolo” vero e proprio, piuttosto quello che offrono gli attori e le attrici è un rito, delicato, aperto, maturo. Un rito fatto di lingue diverse – inglese, francese, e poi sonorità caraibiche, africane – e di canzoni, strutturato in una alternanza tra “recitativo” e “coro“, tra assoli e momenti d’insieme che potrebbe rimandare non tanto all’opera classica, quanto forse a una forma di musical. Un rito che ha sequenze, azioni, scene recitate, addirittura una storia (ossia una trama) possibile, che ciascuno può però declinare a seconda delle proprie visioni o interpretazioni. È la storia del viaggio di un Uomo, direi di Ognuno, viaggio forse solo geografico, forse nella memoria. Oppure un viaggio che è solo un lungo sogno, magari il ricordo prima della morte di quell’uomo, interpretato – con una aderenza straordinaria – dallo stesso Richards, protagonista e regista in scena.

The living room all’Istituto Polacco di Cultura di Roma

La storia è impregnata di mito, di leggende, di agnizioni, di simboli antichi ed eterni che pure prendono immediatezza grazie al modo assoluto con cui il Workcenter la rivolge al pubblico. Al di là di questo, è prezioso cogliere quella sapienza, quel sapere, di cui si diceva: il modo di mettere i piedi, di intonare la voce, di accordarsi al suono degli altri, semplicemente di “stare”, nella consapevolezza di sé e dell’Altro che è nel sorriso con cui, da sempre, il Workcenter accoglie e illumina il proprio percorso. Il sorridere dell’attore al compagno di scena o allo spettatore è un tratto distintivo: non per vezzo ma per reale adesione a quanto sta accadendo, quel sorriso è di un nitore adamantino, in tutti e ciascuno degli interpreti in scena. Sono bravi, bravissimi: potrebbero fare un triplo salto mortale in ogni istante. I corpi vibrano, con leggerezza, risuonano di voci ataviche, antiche, che riemergono dalla memoria dell’umanità. Archetipi, insomma, si evocano e si appalesano, si ascoltano al di là di ogni presente. Tutto è di una precisione incantevole, accordi e gesti posti con tale leggerezza da celare ogni sforzo, ogni tensione.

È un fluido fiume, questo The living room, filiazione diretta e arricchimento delle “Action”, in cui anche lo stappare una bottiglia di champagne avviene esattamente nel momento e nel punto opportuno. Ecco: il tempo opportuno, il Kairos, quell’istante eterno in cui tutto sembra allinearsi in armonia. Con un monito, una lezione morale, che recita, più o meno:«molti sono all’apertura e nessuno è nel pozzo/molti sono alla porta, ma i solitari sono coloro che entreranno nella camera nuziale». Battuta finale, conclusiva ma aperta.

Quando, poi, il rito-spettacolo termina, sfuma, resta sospeso un silenzio assoluto, una intimità che si è creata tra performer e spettatori: ci si “risveglia”, con un sussurro, un bisbigliare sommesso, un cuore che pulsa lieve e costante. Passano minuti di dolce languore: lo champagne offerto a noi spettatori, un brindisi timido. La sensazione è di un tutto rarefatto, pulito, quasi rigenerato. E a Roma, nella sala dell’Istituto Polacco, dopo quel tempo senza tempo, rompendo una tradizione che va avanti dalle “Action” di decenni fa, scroscia un applauso: applauso lungo, forte, di ringraziamento per Thomas e per il gruppo

Nella due giorni romana c’è stata anche l’occasione di presentare, in un incontro guidato dal critico Attilio Scarpellini, una importante iniziativa editoriale realizzata dall’editore La casa Usher.

Jerzy Grotowski

Sono i quattro volumi di scritti di Jerzy Grotowski, che coprono un arco di tempo che va dal1954 al 1998. I Testi di Grotowski, splendidamente tradotti da Carla Pollastrelli (in una traduzione che è anche studio critico, attraversamento intelligente) sono interviste, saggi, articoli, conferenze, interventi pubblici che il maestro ha tenuto nell’arco della sua lunga attività. Divisi in quattro volumi, La possibilità del teatro, Il teatro povero, Oltre il teatro, L’arte come veicolo, che sono anche altrettante fasi di vita e ricerca,  i Testi di Jerzy Grotowski dovrebbero campeggiare nelle librerie di tutti gli attori e le attrici, i registi e i tecnici, gli organizzatori e i critici italiani. Libri importanti per intuire lo spessore della ricerca, lo studio, il metodo, il rigore, la tecnica, la dedizione, la serietà. Quando si dice: i “fondamentali”…

Una considerazione a margine va fatta: rendiamo merito all’Istituto Polacco per questa importante iniziativa, ma certo è un po’ imbarazzante che nella Capitale non si vedano più o quasi i maestri della scena. Due giorni non bastano per il Workcenter come non basterebbero per tanti che da molto tempo non approdano sul Tevere: l’Odin Teatret di Eugenio Barba, oppure, che so, Ariane Mnouckine, Christoph Marthaler, il Berliner o il Dramaten, il Wooster Group o il Nature theatre of Oklahoma, Lepage o Vasilev, Lev Dodin o Kati Mitchell, Frank Castorf o semplicemente Olivier Py, Thomas Ostermeier, Simon McBurney, ma l’elenco potrebbe continuare…

(nella foto di copertina: Thomas Richards)

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