Teatro

Violenze familiari in scene quotidiane

7 Giugno 2019

C’è un inghippo, alla base di Scene di violenza coniugale, il testo di Gérard Watkins presentato recentemente a Roma dalla compagnia Teatro di Dioniso anche produttrice con Pav nell’ambito del bellissimo progetto europeo Fabulamundi.

Ed è un inghippo, oserei dire, morale, che attanaglia il manipolo di spettatori chiamato, in un appartamento nascosto del quartiere Ostiense di Roma, ad assistere allo spettacolo. Perché, come in un gioco di prestigio, il testo ostenta e cela, ovvero mostra smaccatamente e al tempo stesso nega.

Quel che mostra è la vita di due coppie francesi, di varia estrazione economica e varia etnia, alle prese con le dinamiche tipiche, anche banali, della vita di coppia. Incontri casuali, innamoramento, convivenza, crisi, e infine violenza.

Quel che cela, come in una sacra rappresentazione di fronte al martirio di Gesù sul Golgota, è il ruolo dello spettatore, che certo assiste ma non interviene.

Lo spettacolo è aspro, scritto, e allestito, con un taglio quasi realista, quotidiano, semplicemente diretto. Le due coppie si alternano in “scena”, ossia al centro della sala, lungo il cui perimetro sono disposti gli spettatori: da una porta, chiusa con una tenda, si accede all’altra stanza, si presuppone sia la camera da letto, o comunque il luogo delle “torture”, dove non viste si compiono le violenze.

Clio Cipolletta e Roberto Corradino, foto di Manuela Giusto

 

Le due coppie, si diceva, si alternano, dapprima al battito di mani della regista (anche lei seduta tra il pubblico e poi prenderà un ruolo di snodo) che scandisce il tempo delle azioni, dei quadri in cui si suddivide questa escalation di violenza.

Poi, quel battimani forse inutile scomparirà, la metateatralità del gioco sfuma in un incalzarsi di situazioni, l’una affastellata all’altra, con ritmi sempre più serrati, forzati, asfissianti – interrotti, ahimè, dal suono fastidioso di un cellulare che una signora spettatrice non riusciva a spegnere.

Così, il pubblico entra, o meglio affonda, nelle esistenze dei quattro personaggi, ne segue le dinamiche mentali e relazionali, ne intuisce ben presto la deriva possibile. Tutto è chiaro, sin dall’inizio, per quanto fastidiosissimo: sappiamo come andrà a finire, e se ci fosse qualche dubbio, c’è il titolo a ricordarcelo. Non si esce da quel meccanismo di sopraffazione subdola, di prevaricazione violenta, di feroce ricatto fisico e morale del maschio sulla femmina. Il “mansplaining”, le ossessioni, le grida, le botte, gli oggetti che volano, i lividi, le paure. Perché? Come?

L’autore poi, nella valida traduzione di Monica Capuani, mette in campo con qualche ridondanza e lungaggine, anche elementi di classe, sociali, religiosi. Ma la sostanza è tutta lì, nella dinamica tra uomo e donna.

Alberto Malanchino e Annamaria Troisi, foto di Manuela Giusto

Fin troppo smaccato, quasi prevedibile, allora, è l’evolversi della storia. Con scarti di rivolta, finalmente e fortunatamente, o confessioni tardive. Ma qui entra l’inghippo morale.

Dove eravamo noi? Noi spettatori lì seduti, silenti. Certo, si dirà, è teatro: Watkins compone una partitura “didattica”, smaccatamente teatrale pur nella interpretazione “quotidiana” e minimale, e non lascia spazio a reazioni dello spettatore, non prevede reazioni inconsulte o libere.

Insomma: ci fa ascoltare le grida, vediamo i segni, conosciamo i colpevoli, e stiamo zitti. Non facciamo niente, non interveniamo: tanto, è teatro, tanto è una finzione, tanto è un gioco. Ma fuori da quella stanza? Fuori, nella vita “vera”, “reale”, che facciamo? Che avremmo fatto?

La violenza di genere è ormai inconcepibile prassi giornaliera. Il femminicidio è all’ordine del giorno nella benpensante e bigotta Repubblichetta italiana. I macho sono al governo, eredi di quel “celodurismo” che ha da sempre segnato gli slogan della Lega: legittimamente eletti, per carità, sostenuti e votati democraticamente con tutto il loro armamentario di slogan virili, per questo ancora più preoccupanti. E dunque lo spettacolo chiama in causa ogni singolo spettatore, testimone passivo di violenze sistematiche: ci troviamo esasperati di fronte a tante urla, ci guardiamo intorno per non vedere, spostiamo giudiziosamente le gambe per non essere sfiorati dagli oggetti che volano. Stiamo zitti, siamo complici.

Diretti da Elena Serra, sono perfettamente aderenti al progetto i quattro interpreti: l’ottimo Roberto Corradino, che ritroviamo volentieri in questa prova di grande maturità, e con lui Clio Cipoletta, Annamaria Troisi e il bravo Alberto Malanchino. Un bel cast affiatato e per fortuna multietnico, specchio finalmente della nostra società.

Poi usciamo, a due passi da Piazzale Ostiense, con la Piramide e il cimitero acattolico, tiriamo un sospiro di sollievo dopo tanta cupezza, ma non possiamo non pensare che magari, negli appartamenti di quei palazzoni tutti intorno, qualcuno sta gridando.

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