Teatro
Vincenzo Picone e il quotidiano straordinario di “Così vicino, così lontano”
Le nostre città sono sempre più costituite da isole, spazi dai confini ben delineati, privi di ponti che le possano collegare. Si allentano le relazioni, si smarriscono le storie. La vita scorre secondo i rimi meticolosamente scanditi dell’età di mezzo mentre, ai margini, infanzia e vecchiaia osservano, padrone di un tempo altro (quello della scoperta e della memoria), senza grandi possibilità d’incontro. A partire da questa riflessione e dal testo di Peter Handke, L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, Vincenzo Picone ha deciso di realizzare un primo studio dal titolo “Così vicino così lontano” i cui “risultati” sono andati in scena lo scorso 18 maggio al Teatro Due di Parma. Il percorso si è sviluppato a partire da tre gruppi di lavoro: quello composto da una quarantina di studenti universitari (l’età di mezzo, non ancora così distante dall’infanzia da averla dimenticata, in parte già consapevole del futuro rappresentato dall’età matura), sette bambini (di età compresa fra i 5 e i 10 anni) e un gruppo di anziani provenienti da centri diurni, cori, comitati di quartiere, università degli anziani. Un piccolo microcosmo di persone che, nel contesto cittadino quotidiano, raramente hanno occasione di entrare in contatto.
Il primo passo – ci ha raccontato Picone in una lunga chiacchierata – è stato proprio quello dell’incontro: l’accostamento di vite in apparenza così differenti, l’interazione che si è generata, i ricordi, i racconti di tutti i giorni, le domande che i partecipanti hanno posto gli uni agli altri, hanno ricreato un sentimento di comunità, idealmente rappresentato dalla piazza che, sulla scena, è diventata la co protagonista della narrazione. Un’operazione sociale e politica al tempo stesso capace di porre, attraverso il medium teatrale, l’attenzione sulla marginalità che, negli ultimi decenni, ha investito in occidente il mondo degli anziani, allontanando da una parte il senso di morte dalle nostre vite, eliminando, dall’altra, la componente di “garanzia” per una comunità rappresentata dalla memoria. Una memoria che si estrinseca anche e soprattutto nella dimensione collettiva del rito (racconto, rappresentazione, discorso pubblico), che oggi risulta fortemente marginalizzato se non, addirittura, inesistente. Un rito che può ritrovare, nella dimensione teatrale, il suo spazio, diventando, al contempo, strumento di riappropriazione del tempo e della durata, un concetto molto difficile da spiegare a parole o rendere nella dimensione “adulta” dell’essere umano contemporaneo, ma che nei bambini e negli anziani si manifesta in modo naturale, nell’azione, nella parola e nel silenzio. La durata è stato il secondo elemento chiave della ricerca di Picone che, riprendendo ancora una volta un testo di Peter Handke – Canto alla durata – ha interpretato il fare teatro come palestra, allenamento alla riscoperta delle relazioni per la costruzione di una nuova comunità i cui contorni non possono essere oggi delineati con precisione, ma che nel luogo “piazza” potrebbe ritrovare un preciso spazio di costruzione.
Di fronte a tutto questo uno spettatore che, per il tempo dello spettacolo (tappa intermedia di un percorso che si auspica possa essere di lunga durata e vedere nuovi appuntamenti per la prossima stagione), si fa osservatore ed esploratore, senza che da parte della regia venga fornita una precisa chiave di lettura, ma soltanto una mappa, sulla quale si possa muovere liberamente cercando di trovare i propri punti di riferimento. Un percorso sulla comunità e su noi stessi, come individui, sulle nostre vite e il nostro approccio al tempo che, parallelamente, ci interroga sul significato (e le esigenze) che attribuiamo alla parola comunità.
PH. Francesco Bianchi
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