Teatro

Vedi Napoli che teatro!

15 Dicembre 2015

Che vitalità a Napoli! L’8 dicembre via Toledo o via dei Tribunali sembravano invase da una manifestazione, e invece era solo lo struscio festivo di gente che se ne stava in strada, tranquilla e mediamente felice, a passeggiare o a pensare ai regali di natale.

E la vita teatrale è altrettanto vivace e propositiva. Confronti appassionati tra gli operatori e gli addetti ai lavori, per capire il futuro di una città in cui il Teatro Nazionale gioca un ruolo rilevante, di stimolo, oggetto di attente discussioni e pure di aspre critiche; poi si avvertono diffusi dubbi sul futuro del Napoli Teatro Festival, per quanto sia passato alle mani esperte di un artista internazionale come Franco Dragone, stimato ma a detta di molti troppo distante da un mondo sulfureo, complesso e articolato come quello della scena napoletana. Fattostà che, nonostante sia tutto un disastro, il “non-sistema teatrale”, sotto il Vesuvio, paradossalmente funziona, contando magari più sull’entusiasmo che non sui finanziamenti o su strutture efficienti e questa città che è un teatro a cielo aperto continua a sfornare talenti. Difficile fare un elenco di quanti – registi, attori, attrici, tecnici – siano partiti da Napoli per conquistare palcoscenici e pubblici non solo italiani, da quelli prestigiosissimi a quelli “off”.

Se è  naturalmente ancora doloroso il pensiero per la prematura scomparsa di un protagonista raffinatissimo e amatissimo come Luca De Filippo, i napoletani si stringono a Toni Servillo che si fa con entusiasmo alfiere della scena di ricerca finalmente diventata popolare in tutto il mondo. Intanto Mario Martone dirige il Teatro Nazionale di Torino e il teatro d’opera con grandi riscontri e Antonio Latella miete ovunque premi; Arturo Cirillo si conferma ai vertici della produzione nazionale e Davide Iodice continua con i suoi intensi progetti sospesi tra poetica e pedagogia. Poi c’è il maestro Renato Carpentieri, c’è Enzo Moscato che è un poeta assoluto: mettendo in scena un suo testo, Carlo Cerciello con Imma Villa ottengono il premio della Associazione Nazionale Critici. Si fanno sempre apprezzare Francesco Saponaro o Andrea De Rosa e già altri nomi si confermano o si affacciano all’orizzonte: impossibile citarli tutti. Basti pensare alla straordinaria compagnia Punta Corsara, a Mimmo Borrelli, Benedetto Sicca, Michelangelo Dalisi, Antonello Cossia, Sara Sole Notarbartolo, e poi ancora agli attori e alle attrici, ai clown e agli autori, agli scenografi, i costumisti, ai tanti spazi indipendenti e auto-organizzati che disegnano una mappa alternativa e vivacissima del contemporaneo.

Crave, foto Pepe Russo
Crave, foto Pepe Russo

Spazio storico, invece, è la Sala Assoli, nei quartieri spagnoli, che festeggia i trenta anni di attività. Qui agisce la neo nata Casa del Contemporaneo – una macrostruttura, composta da tre realtà diverse, riconosciuta da Mibact come Centro di Produzione, nonostante palesi difficoltà amministrative e economiche nella sua sede di Salerno che toccano profondamente anche la serenità dei lavoratori – che ha presentato uno spettacolo di grande rilievo: Crave, di Sarah Kane, con la regia di Pierpaolo Sepe, altro punto fermo della regia made in Neaples.

Per Sarah Kane – in Italia ottimamente portata dapprima da Barbara Nativi, per poi esplodere come fenomeno condiviso – non possiamo non fare i conti con una prospettiva di scrittura fortemente psicoanalitica. Tutta la sua tragica opera, come sanno gli amanti di teatro, è volutamente conturbante, aspra, malata, diretta, eppure quotidiana, intima. Una scrittura che è eminentemente linguaggio, non situazione, ovvero parola che s’incarna senza identità precisa. Il suo testo-testamento, Psicosi delle 4:48 è un flusso di coscienza che evita ogni riferimento mimetico per lasciar parlare, ben oltre Beckett, un Io disgregato e fragile, patologicamente deviato per fobie e incapacità relazionali, autopunitivo e notevolmente sofferente. Per Franco Cordelli, quello della Kane è grande teatro. Recensendo, anni addietro, proprio una precedente edizione di Crave, il critico del «Corriere della Sera» scriveva: «Di che parla Crave? Non si può dire. Sarebbe come chiedere di che parla un Trio di Schubert. Crave si scioglie in una scrittura orizzontale che è pura musica, puro ritmo. Frasi brevi, o brevissime. A volte niente altro che un sostantivo, o un aggettivo. I verbi sono spesso intransitivi, o all’infinito. Negli stacchi, ovvero nei passaggi da un attore all’altro, o meglio nel montaggio consiste la vera arte della Kane: un’arte non figurativa, possente, di lancinante risonanza. Difficilissimo conferirle vibrante e vera vita…». Devo dire che aveva, ed ha, ragione.

Ricordo ancora l’edizione di Thomas Ostermeier, presentata a Taormina, per il Premio Europa, nel 2000: bellissima e algida, tagliente come un rasoio. Me l’ha fatta ricordare proprio l’approccio di Pierpaolo Sepe all’opera: diverso, ovviamente, poiché non poteva non risentire di Napoli, appunto.

Il regista chiude in una specie di gabbia i quattro generosi interpreti. Un’alta parete metallica divide lo spazio della platea dal palcoscenico. Di là, sul fondo, quattro cellette, con finestrelle sbarrate da grate: cosa è? Una prigione? Un vecchio manicomio? Non ci è dato sapere. I quattro si muovono per linee verticali, avanti e indietro, su una porzione minima di terreno tagliata da fasci di luce (e qui, forse c’è un indiretto, o involontario rimando a Ostermeier, che aveva bloccato i quattro su altrettanti, monumentali, parallelepidedi).

Poi inizia il flusso di parole, il turbinio di evocazioni, sensazioni, ricordi. Discorsi frammentati, pezzetti di parole, anche senza senso che si accavallano, si scompongono, rimbalzano di qua e di là, nelle bocche, nei corpi degli attori. Chi sono? Chi parla?

Risuona quel disagio psichico, quel disperato bisogno d’amore, di calore, di passione, che era il mondo dell’autrice inglese.

foto Pepe Russo
foto Pepe Russo

Nell’edizione di Sepe questo flusso interiore è portato alla luce con tenerezza e passionalità. Se, in apertura, i toni, le allusioni e i rimandi sono quasi esclusivamente sessuali (con quel parlar troppo sospirato e ambiguo) poi la declinazione del testo arriva a un’esplosione di identità, fisica e mentale, di grande forza. I quattro si denudano, si sbattono contro le pareti, si scambiano gli abiti come si scambiassero le vite (o sperassero di farlo), ma il risultato non muta: è il dolore che li attanaglia a non cambiare. Sono monadi, sfaccettature indipendenti di una stessa sofferenza. Per questo, forse, diventano pleonastici quegli abbracci tra loro che sembrano dare nel prefinale un momento di (eccessivo) conforto, di solidarietà.

Perché invece, poi, da quella gabbia non uscirà nessuno.

Sono bravi i quattro attori – Gabriele Cofferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra e Morena Rastelli – a dar pregnanza corporea, umorale, viscerale e sentimentale a quel dolore gridato e sussurrato che è il teatro di Sarah Kane. Insomma, questo spettacolo è un “fatto”, una roba concreta e tosta, che conferma la forza registica di Pierpaolo Sepe, giustamente e lungamente applaudito dal pubblico della Sala Assoli: e speriamo davvero che, anche grazie a lavori così, la “Casa del Contemporaneo” possa sollevarsi dal magma che rischia di spegnerne l’entusiasmo, sanando finalmente le situazioni sospese e portando a termine il progetto culturale e artistico che la caratterizza.

 

ETERNAPOLI tratto da “Di questa vita menzognera” di Giuseppe Montesano drammaturgia Giuseppe Montesano e Enrico Ianniello diretto ed interpretato da Enrico Ianniello una produzione Teatri Uniti - Teatro Franco Parenti
Enrico Ianniello in “Eternapoli”, foto di Alessia Della Ragione – Babel adv

Mentre alla Sala Assoli si celebrava il rito dolente di Crave, nel Piccolo del bellissimo Teatro Bellini – veramente un nuovo punto di riferimento per la scena nazionale, e spazio tra i più belli d’Italia – complice la vivacissima direzione dei fratelli Russo, andava in scena tutta un’altra storia. Stiamo parlando di Eternapoli, monologo che Enrico Ianniello, ha diretto e interpretato partendo dal romanzo Di questa vita menzognera del bravo Giuseppe Montesano. Seguo Ianniello dai tempi dell’Onorevole Teatro Casertano, la compagnia che fondò con Tony Laudadio attorno al 2000, ma lo vedo in scena sicuramente da prima di quell’anno. Attori di razza, entrambi: e Ianniello ultimamente si è segnalato anche come traduttore e autore dalla penna raffinata. Qui, in questo racconto, conferma la verve interpretativa che lo contraddistingue: ha talento da vendere, ormai star della scena napoletana, è apollineo e dionisiaco, sa essere sciatto e volgare come una vaiassa e subito dopo altero e austero come un chirurgo all’opera; scivola serenamente tra i registri – comico e drammatico sono indifferenti per lui; evoca e cita teatralità altre o alte, che però sorvola, sornione, in nome di una immediatezza sincera che lo rende particolarmente amato dal pubblico.

ETERNAPOLI, regia di Enrico Ianniello
ETERNAPOLI, regia di Enrico Ianniello, foto di Alessia Della Ragione – Babel adv

Eternapoli, dunque, è l’occasione per dare voce – e piccoli gesti – a una miriade di personaggi, componenti di una famiglia allargata di arricchiti, i Negroponte, probabilmente camorristi, certo arrivisti. Il loro progetto – fantascientifico ma non troppo – è di fare della città un gigantesco parco di divertimenti per turisti, asfaltando e annientando tutto e tutti. In un clima tra Parenti serpenti di Monicelli e Festen di Vinterberg, le posizioni dei vari familiari sono diverse, fino al delirante e allucinato finale. Probabilmente l’eccesso di caratterizzazioni non ha giovato: in questo coro ci sono un po’ troppe voci e lo spettatore, anche il più accorto, rischia di perdersi. E probabilmente la scrittura di Montesano non è al meglio: la deriva misticheggiante e onirica cui approda, tra fantascienza e realismo magico, inficia il tono comico, greve, schietto e violento, molto più efficace rispetto al fraseggio lirico. Ma la vicenda è intrigante, ha momenti divertenti, sconcertanti considerazioni sulla realtà, sull’arte, sull’amore sparate con disincanto ma aguzze come lame.

Prodotto da Teatri Uniti e Teatro Franco Parenti, Eternapoli si fa però molto amare: applausi convinti di tutti i presenti.

 

 

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