Teatro
Vecchi tempi: Pinter e le relazioni in scena. Intervista a Roberto Biselli
Tornare a riflettere sul tema delle relazioni, della conoscibilità dell’altro, della possibilità di attingere all’autenticità nei rapporti: ci prova Pierpaolo Sepe, nella sua personale interpretazione di “Vecchi tempi” di Harold Pinter. Un classico difficile con cui misurarsi, per la complessità del testo, volutamente aperto, interrogante, ricco di sfide, ma anche per l’argomento oggetto del racconto che, nell’attualità dell’oggi, pone allo spettatore infinite possibili domande, derivanti da infinite possibili chiavi di lettura. In scena Deeley e Kate, marito e moglie, e una figura proveniente dal passato, Anna, amica di Kate in gioventù. Parlando di lei, del rapporto che legava le due donne, la coppia di confronta con il proprio vissuto, ciascuno a partire da un punto di vista, senza riuscire a farli coincidere. Non esiste una sua versione dei fatti, così come non esiste una sola versione, presente e passata, dei protagonisti. Chi sono Deeley e Kate? In che modo si sono influenzati a vicenda? Deeley vede in sé stesso la figura fallimentare di chi ha inquinato non solo un rapporto, ma anche le possibilità di realizzazione della moglie. Una realizzazione che sembra non essere mancata ad Anna. Bella, divertente, elegante: l’amica di un tempo è tutto quello che Kate sembra avere perso nell’impossibilità, per Deeley, di offrirle la vita meritata. Il senso di colpa e fallimento si trasformano presto in rancore, per l’inevitabile odio che, chi mette in discussione i nostri limiti, chi mette in discussione le nostre relazioni suscita in noi. Eppure Anna non è quell’elemento di gelosia che, quasi naturalmente, potrebbe portare alla crisi di un rapporto nel topos comune. È la sua sola presenza, come ipotesi possibile e diversa di realizzazione di una felicità un tempo percorribile a sollevare domande frizioni nella coppia. Pinter non offre però una risposta circa questa crisi, sulla bontà (o meno) delle sue motivazioni. Si limita a osservare, a restituire, ancora una volta, l’inconoscibile complessità delle relazioni.
Abbiamo parlato di questa nuova produzione – firmata Pierpaolo Sepe e Teatro di Sacco in prima nazionale il 28 agosto al Festival di Todi– con l’attore protagonista Roberto Biselli.
Da dove siete partiti nel lavoro attoriale e di regia, per portare in scena questo grande classico, così noto, ma così ricco di sfide interpretative?
Il testo di Pinter è complesso. Si tratta di un classico molto noto, certo, ma anche estremamente enigmatico, ricco di sottotesti. Il riferimento ideologico agli anni Cinquanta e Sessanta è fortissimo, ma tutto il racconto è applicabile a un “non tempo”, a uno spazio sospeso che consente quindi un rapporto stretto con la contemporaneità. È possibile sviluppare spunti diversi e reinterpretarli grazie agli attori, a cui viene affidato il compito di trovare la chiave per portare in scena le tante sfaccettature possibili. La vicenda non segue una scansione temporale data e regolare, le relazioni non sono date una volta per tutte: possono cessare, continuare a esistere o esistere solo nella memoria e nella prospettiva di uno dei protagonisti.
Un tema molto attuale quello delle discrepanze fra le relazioni percepite in scena. Oggi spesso fatichiamo a riconoscere l’altro, a farci riconoscere per il nostro essere autentico, sempre che sia conoscibile e che noi stessi lo conosciamo…
Certo è attuale. Saltati i presupposti dei ruoli tradizionali, degli spazi sociali nettamente attribuiti a ciascuno nel corso della propria vita, siamo immersi in un contesto di forte narcisismo e individualismo. Un labirinto in cui è difficile, se non impossibile, comprendere le relazioni. Così è per i nostri protagonisti e lo spettatore può cogliere in modo netto questo elemento in scena.
Lo spettatore rischia di trovarsi spiazzato quindi…
Da spettatori noi abbiamo bisogno di identificarci in un ruolo, in una figura rassicurante. In questo caso non la troviamo, perché non c’è. Così come non c’è una chiave di lettura univoca per la crisi di questi rapporti. Un aneddoto interessante: alla prima italiana, per la regia di Luchino Visconti al teatro Eliseo, ci fu un acceso scontro nei camerini fra regista e autore. Pinter vide rappresentato in scena uno spettacolo in cui l’eros era l’elemento dirimente per lo sviluppo delle vicende. La Kate infatti restava nuda in scena per l’intera durata della pièce. La reazione di Pinter fu così dura che tolse a Visconti i diritti sullo spettacolo. Non era quella la chiave di lettura del suo dramma. Non è infatti l’eros a mettere in crisi i rapporti, ma la difficoltà che hanno i personaggi a relazionarsi, a conoscersi e riconoscersi, a identificarsi. Uno sguardo su sé stessi e sull’altro viziato che alla fine li logora, proprio perché non ci sono ruoli dati e tutto si altera.
Questo avrà creato anche nel vostro lavoro attoriale non poche difficoltà…
Certamente. Il lavoro con Sepe è stato entusiasmante e sfidante. Nulla era precostituito e a ogni prova lo schema poteva cambiare in modo profondo. D’altra parte non era nemmeno possibile pensare di immedesimarsi in modo preciso con i protagonisti, data l’inconoscibilità delle loro figure. Abbiamo lavorato sotto una continua sollecitazione, costruendo e decostruendo i nostri ruoli in un percorso che speriamo possa restituire allo spettatore molte domande, senza però abdicare al nostro ruolo di stimolo di un pensiero.
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