Teatro

Va Pensiero delle Albe a Roma (e il costo di quei biglietti…)

14 Novembre 2018

A volte prende l’urgenza di scrivere di uno spettacolo, anche scavalcando altri che finiscono “in lista d’attesa”. Ho in testa, ad esempio, l’idea di parlare di Milo Rau, o di due spettacoli diversi tra loro, visti a Genova. Ma dovranno aspettare un po’, dovranno decantare nella mia testaccia ancora. Adesso sono in partenza per il Premio Europa, a San Pietroburgo, che proverò a raccontare su queste pagine da domani.

Il fatto è, però, che ieri sera sono andato al Teatro Argentina di Roma a vedere Va Pensiero, del Teatro delle Albe di Ravenna. E dispiace dirlo, ma in platea eravamo pochini. Una prima, nel teatro Nazionale, di un gruppo come quello fondato da Marco Martinelli e Ermanna Montanari avrebbe meritato maggiore attenzione da parte del pubblico romano. E invece i palchi erano vuoti e anche nel parterre spiccavano dei buchi. Non credo che tale latitanza si possa addebitare al cambio di direzione in atto nello Stabile capitolino: gli uffici del Nazionale fanno sempre al meglio il loro lavoro.

Certo però non possiamo non registrare, ad esempio, che mettere i biglietti a 40eu l’intero, a 32 il ridotto e per scuole e studenti a 20eu, di questi tempi, forse non è proprio una idea brillante. Vero, con la “card”, l’abbonamento di 78eu, si può vedere lo spettacolo a 13eu per gli under35, ma di fatto è ancora una spesa considerevole per uno studente.

E qua si torna, allora, all’annoso tema del ruolo dei teatri nazionali, di quel “teatro d’arte per tutti” che fu stimolo alla nascita del Piccolo di Milano. Oggi viene da chiedersi: per tutti chi?

La distinzione a base di censo sembra sempre più forte: un muro invalicabile. In questo clima da “botteghino über alles”, da algoritmi dittatoriali, da “alzate di sipario” come non ci fosse un domani, da incassi incassi e sempre incassi (anche a scapito della ricerca, della qualità, della riflessione, della comunità) le cose non tornano.

Noi spettatori di professione abbiamo il privilegio – discutibile quanto vogliamo, ma oggi indispensabile, pena la fine stessa della pratica critica – dell’invito, dell’ingresso gratuito o facilitato. Possiamo solo esserne grati ad artisti e operatori. Ma chi andrebbe a teatro tutte le sere dovendo spendere 40eu a biglietto?

Allora, di fatto, vale la pena, quanto meno, porre la questione. Insomma: che politica devono seguire questi teatri pubblici?

Perché poi ci si ritrova, come ieri sera, io mammete e tu. Per uno spettacolo, invece, che è popolare, autentico, arioso. Non una faccenda “elitaria”, “sinistroide” tantomeno “buonista” come pretende la “pancia del paese” di fronte a certi eventi, ma un racconto diretto, immediato, facilmente riconoscibile e condivisibile.

Va pensiero è uno spaccato brechtiano su usi e (mal)costumi italiani, una parabola indicativa dei tempi in cui risuonano, coinvolgenti e emozionanti, le arie verdiane fino all’apoteosi del finale, le luci accese in sala, che è (avrebbe dovuto essere) un canto collettivo, una corale appunto vera, in nome di quei principi di unità, solidarietà, di affratellamento proprio come è nel coro verdiano che fa da titolo.

La narrazione, un primo studio era già stata presentato al Teatro di Roma nell’ambito di “Ritratti di una nazione”, prende spunto da un fatto realmente accaduto a Brescello – il paese che fu di Don Camillo e Peppone di Guareschi – e parla di infiltrazioni mafiose, o meglio della Ndrangheta, in Emilia Romagna e al Nord.

Parla di speculazioni e corruzione, di pizzo e intimidazioni, ma anche di gente onesta, di bella politica, di destini individuali e collettivi. Sottotraccia, c’è il passaggio tra la politica come impegno alto, come amministrazione corretta, come visione e bene pubblico, che fu di un passato poi non così lontano, e il declino che pare inarrestabile di questi tempi, impastato di interessi privati e carrierismo facile, di compromissioni e “distrazioni” di fondi. Un vigile onesto e curioso (umanissimo Alessandro Argnani) a fronte di un paese declinante: che può fare? E che invece potrebbe fare se non fosse solo?

Lo spettacolo, allora, ha l’andamento livido di un’opera didattica che sarebbe piaciuta al miglior Bertolt Brecht. Sta là, a mostrarci quel che siamo.

Forse qualche lungaggine di troppo, dovuta più che altro all’ansia di far capire bene, appesantisce qua e là, laddove magari una sforbiciata più ironica avrebbe giovato (ma poi chi sa!). Eppure ci sono momenti taglienti, aspri, dolenti addirittura grotteschi in questa storia dove, a governare tutto e tutti, una “sindaco-zarina” (magistralmente interpretata da Ermanna Montanari) figlia di un politico di lungo corso e tutto d’un pezzo, di quelli che hanno fatto il Paese. Non reggerà quella pesante eredità morale, e nelle sue contraddizioni, nel conflitto interiore, registriamo il tracollo personale e collettivo italiano. L’etica politica è ormai un fardello di cui sbarazzarsi al più presto.

Quanto sarebbe bello, invece, tornare a cantar Verdi, con le lacrime agli occhi, e ritrovare magari un patriottismo vero, il senso della comunità, un futuro possibile oltre la disfatta. E chissà, se ci fosse un teatro pieno, probabilmente l’emozione, il messaggio, si diffonderebbero più in fretta.

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