Teatro

Un’Orestea napoletana tutta al femminile

13 Dicembre 2015

Proprio mentre a Parigi va in scena l’attesa ripresa dell’indimenticabile Orestea di Romeo Castellucci e della Raffaello Sanzio – l’artista è protagonista assoluto dell’autunno teatrale parigino – la tragedia di Eschilo si riverbera anche sul palcoscenico del Mercadante di Napoli, con la regia di Luca De Fusco.

Allestimenti diversissimi – va da sé – ma vale la pena sottolineare lo sforzo del Nazionale partenopeo nei confronti di un’opera che si vede raramente nei nostri teatri. Come si sa, quella di Oreste è l’unica trilogia che ci è giunta dal V secolo a.C. ed è un’opera sulfurea, mistica, rituale, complessa e violenta. Vi si narra del ritorno di Agamennone in patria, della vendetta di Clitennestra (forse per rivalsa dopo l’uccisione di Ifigenia), e ancora della violenta reazione di Oreste, che uccide la madre e il di lei amante Egisto. Infine della presenza degli dei: Apollo istigatore di Oreste, le Erinni affamate di sangue, Atena chiamata a giudicare…

Nei secoli questa tragedia è stata affrontata in tutte le sue sfaccettature possibili, innanzitutto nel rapporto dell’uomo con la divinità, e dunque con il proprio destino. Ma è stata letta come struggente metafora del passaggio-evoluzione dal regolamento dei conti privato e tribale alla creazione del primo tribunale, l’Aeropago. Si è letta come passaggio dal matriarcato iniziale a un patriarcato mai più realmente scalfito, e a questo proposito Sue-Ellen Case, riferendosi in particolare alle Eumenidi, individua nell’assoluzione di Oreste il momento culmine e contraddittorio: Atena, che nasce direttamente da Zeus, ossia senza madre, è quindi la visione, la concezione tutta maschile della donna, ovvero la razionalizzazione della misoginia, sostenuta dialetticamente dall’avvocato difensore dell’omicida, quell’Apollo che, in quanto divino, può ragionare meglio con la dea-giudice. Se Pasolini, traducendola per Vittorio Gassmann, affrontava l’originale eschileto con la lingua alta e civile de Le ceneri di Gramsci; Peter Stein, negli anni Settanta, firmò una bellissima edizione-fiume improntata al più cupo riflesso della Germania post-bellica; Luca Ronconi, poi, nel 1972, chiudeva in una celebre “scatola” lignea attori e spettatori – con un cast mirabile – per una versione che lui stesso definiva “analitica” della tragedia. E Castellucci, a suo tempo e di nuovo oggi, ha calato radicalmente la tragedia nell’Alice di Carroll, con esiti sconvolgenti.

Sono solo alcune delle tante strade percorribili per attraversare l’oscuro mondo di Eschilo.

Anche da questa rapida e incompleta carrellata si comprenderà quanto e come Orestea sia un punto di riferimento inevitabile della civiltà occidentale. Dunque è sempre un piacere ritrovarla in scena: occasione unica per cogliere, sempre di nuovo, le fondamenta stesse del teatro e della teatralità.

Elisabetta Pozzi è Clitennestra
Elisabetta Pozzi è Clitennestra

Luca De Fusco, dopo aver allestito l’Agamennone – la prima parte della trilogia – a Siracusa, completa il trittico, avvalendosi della bella, funzionale, efficacissima traduzione di Monica Centanni, che scava in una lingua scenica alta, ma non per questo incomprensibile né, tantomeno, datata.

E lo spettacolo arriva in scena con un cast notevole: un ensemble davvero di livello, in ogni ruolo, che si assume il compito di portare la parola eschilea in modo netto, nitido.

Mi sembra di poter dire – non se ne vogliano i signori attori – che questa Orestea sia decisamente “al femminile”, con buona pace degli studi di genere. Si avverte, infatti, una articolazione interna che rimanda a un quartetto di donne-regine a diverso livello protagoniste.

Intanto Clitennestra. Elisabetta Pozzi è straordinaria (spendo ancora questo aggettivo per lei, ma non saprei come altro definirla!): dimessa e subdola nell’incontro con Agamennone, possente e feroce quando esce dalla reggia dopo l’omicidio, infine fumosa e avvolgente come fantasma della regina. Da brividi.

Poi Cassandra: a me Gaia Aprea in questo ruolo non ha convinto molto, ma è indubbiamente centrale nell’allestimento. Suadente, sottile, si conquista l’ovazione del pubblico. La stessa Aprea è poi Atena, vestita d’acciaio come Ufo Robot, marziale e astratta, risplendente e forse troppo scintillante.

Gaia Aprea come Cassandra
Gaia Aprea come Cassandra

Ancora Elettra: avevamo già notato la giovane Federica Sandrini in precedenti allestimenti. Qui la ritroviamo in stato di grazia, lieve, struggente, delicata, commovente.

Infine (ed è forse la sorpresa, o la certezza, di questo allestimento) la potentissima Angela Pagano. Una Erinni – è il caso di dirlo – furiosa, ma spiccia, vera, travolgente, addirittura divertente. Imperdibile.

Accanto a questo poker d’assi, c’è spazio per Francesca De Nicolais e Dalal Suleiman come corifee; per Daly De Majo appassionata Nutrice e Anna Teresa Rossini come Pizia.

A fronte di questo “matriarcato” ampio e possente, poco incidono gli eroi.

Angela Pagano
Angela Pagano

Questa è, mi sembra, la lettura di De Fusco: partendo dalla terra, dagli inferi da cui provengono quasi tutti i protagonisti, è attorno alle donne che si gioca la partita.

Gli uomini sono personaggi quasi “minori”, comunque manipolati o vittime di queste donne, a partire proprio da Oreste (il bravo Giacinto Palmarini, impeccabile), prima succube della madre, poi bisognoso del sostegno della sorella, dopo incalzato dalle Erinni e infine in balia di Atena. E poco possono la regalità di Agamennone, affidato all’elegante interpretazione di Mariano Rigillo; o le incursioni dell’Araldo (Claudio Di Palma, molto bene anche come Apollo), di Egisto (volutamente enfatico Paolo Serra), di Pilade (Gialuca Musiu) o dei volubili corifei (Enzo Turrin, anche Scolta, e Fabio Cocifoglia).

L’allestimento è di buona fattura nella prima tragedia, l’Agamennone, evidentemente più rodata; mentre sbanda un po’ e scivola progressivamente nella seconda e terza parte, in cui prevalgono elementi diversi – il video, su tutti – a dar troppo “colore” a una scena che invece avrebbe sufficienti soluzioni belle (la terra che ricopre tutto e che svela un fondo illuminato).

Poi c’è il coro, affidato al corpo di ballo della compagnia Korper. Il problema è il solito: al coro tocca fargli far qualcosa. O il tip tap, come Woody Allen per La dea dell’Amore a Taormina, o i testi detti all’unisono in modo marziale: qui le danzatrici sono brave, ma l’effetto musical tv è dietro l’angolo.

Lunghi applausi del pubblico: ero seduto in mezzo a una scolaresca, forse liceali, attentissimi e entusiasti.

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