Teatro

Una scossa per Ragazzi di Vita

30 Ottobre 2016

In questa Roma scossa dal terremoto e illanguidita dal tepore della classica “ottobrata”, andare al Teatro Argentina per vedere Ragazzi di vita, di Pierpaolo Pasolini, con la regia di Massimo Popolizio, significa, volenti o nolenti, fare i conti con la storia e il destino della città.

Resa sempre più cinica, cafona, violenta dal degradare del tempo recente, Roma boccheggia in cerca di nuove spinte, di nuove ispirazioni, aggrappandosi alle fragili spalle della neo sindaca Raggi, troppo sotto attacco – chissà, forse rea di “lesa maestà” – per poter serenamente prendere il timone di questa provinciale megalopoli.

Allora ci si rivolge, sempre più, a Pasolini, considerato (erroneamente) l’unico cantore delle suburre e capitoline sorti.

Ragazzi di vita, romanzo fatto teatro, arriva dunque all’Argentina a conclusione e rilancio di un ampio progetto che lo stabile diretto da Antonio Calbi ha voluto dedicare al Pierpà nazionale, ormai oggetto di una venerazione troppo spesso acritica.

Per affrontare lo spettacolo che ha aperto la stagione, non possiamo non ricordare due precedenti vincolanti, che sono – direttamente o meno – alle spalle di Ragazzi di Vita.

Ragazzi di vita, i bagni "dar Ciriola"
Ragazzi di vita, i bagni “dar Ciriola”

Il primo è un allestimento molto “pasoliniano” dello stesso Massimo Popolizio, il suo debutto alla regia, quel Ploutos di Aristofane, che l’attore ha diretto qualche stagione fa, in una chiave corale e popolare, con la drammaturgia volutamente e smaccatamente “borgatara” di Ricci/Forte. Da quell’esperienza, infatti, sembra tornare la “questione linguistica” ovvero il confronto con il dialetto romanesco reso materia teatrale, e in questo caso poesia con Pasolini.

Il secondo, chiarissimo precedente è il Pasticciaccio brutto di via Merulana, la memorabile “edizione teatrale” firmata da Luca Ronconi, a metà degli anni Novanta, proprio sul palco del Teatro Argentina di Roma. Di quello straordinario spettacolo, il Ragazzi di vita di oggi riprende molti elementi, a partire dalla narrazione in terza persona fino all’impianto corale che aveva il lavoro di Ronconi.

Così, se con il Pasticciaccio il racconto di sé del personaggio in terza persona ci stupì e emozionò, ritrovare oggi quella struttura – nella drammaturgia di Emanuele Trevi – ha certo il sapore dell’omaggio, ma anche, va detto, del dejavu.

Peraltro simile era il punto di partenza: anche in questo caso, infatti, è un libro che deve farso teatro, ovvero mutarsi in dialogico e narrativo, avendo poi a che fare con le voci del popolo, di quella Roma di metà anni Cinquanta (di Gadda o Pasolini) che sono voci trasposte, traslitterate, in qualche modo “tradotte” dalla grana del reale a una possibile letteralità.

Non è un caso che Marcantonio Lucidi, nella sua divertente e ironica recensione allo spettacolo, metta in fila tutti o quasi i non-romani che hanno raccontato Roma: da Fellini e Flaiano a Gadda e Pasolini (fino appunto a Popolizio) la fascinazione per quella lingua bassa e povera è tutta “esotica”, una antropologia “semantica” di chi, arrivando da fuori, sorride sentendo tutta la carrellata possibile di improperi borgatari.

da sinistra: Scialanga, Grilli, Vagni e Roberta Crivelli
da sinistra: Scialanga, Grilli, Vagni e Roberta Crivelli

In Ragazzi di vita, dunque, l’omaggio a Ronconi, che si declina anche in stilemi drammaturgici, scenografici o recitativi  che a quella scuola guardano – anche e naturalmente nell’interpretazione datane dallo stesso Popolizio come attore – ha però un sapore più “umano”, direi “cialtrone” (non si offenda, è un complimento) ovvero una visione tutta attorale che si allontana volutamente dalla perfezione del Maestro. Poi, oltre alla ricerca linguistica cui si è fatto cenno, resta quindi il ritratto di una città che non è più, il canto a un mondo (anche fortunatamente) sparito.

Quella Roma là, la Roma delle “lucciole” che Pasolini vagheggiava e inseguiva, di prima del grande mutamento genetico italiano, era terrigna e barbara, era furbetta e ingenua, schietta e evanescente. Parlava con voci raspate, strozzate, grevi: la Marana dell’Americano a Roma, le baracche, lo smercio del corpo, le gite a Ostia e i tram, erano raccontate con timbri antichi, ormai desueti.

A Pietralata o sulla Prenestina il boom era ancora ben lontano da arrivare (basterebbe rivedere il bellissimo Diario di un maestro per ricordarlo), e Pasolini, incantato dalla forza bruta, immediata, forse tardopoetica di quel mondo e di quei suoni, ne fa un’epica, ne narra le gesta, ne illumina dettagli, protagonisti, i sogni e le disfatte.

Nel riportarlo sulla scena, Massimo Popolizio ottiene almeno un paio di risultati: da un lato demistifica il Pasolini Santone, il Profeta buono per tutte le occasioni, il santo bruciato sull’altare della sinistra. Dall’altro – aggirando la pedanteria di certe tragedie borghesi – riporta alla luce quel sottoproletariato, ossia i suoni della Roma appunto com’era, goliardica e fannullona e in questo poi non troppo cambiata.

Lino Guanciale
Lino Guanciale

L’operazione Ragazzi di Vita, allora, per tanti aspetti riesce: per la coralità felice del cast, fatto di diciannove attori vivacissimi in scena, guidati da un Lino Guanciale, narratore-poeta, che tesse le fila del racconto. Poi proprio per lo sguardo disincantato sul Poeta delle Ceneri, che ce lo rende un po’ più umano, più romanziere (paradossalmente neo-realista) e meno verbosa icona sugli altarini della Verità. Infine per la lingua, il parlato che risuona tra le volute dell’Argentina come fossimo a Campo de’ Fiori decenni fa.

E si ride durante lo spettacolo, di quei detti popolani, annotati sapidamente dall’intellettuale e messi in bocca ai suoi personaggi. Pasolini divenuto romano ascoltava il popolino, anche forse con quella “invidia di classe” che ha spinto tanti borghesi a guardare alle categorie “inferiori” per senso di colpa o per accorata militanza: ma vibra, in lui, un’empatia, una sincera solidarietà verso quell’incultura di chi è destinato a rimanere confinato ai margini del mondo, eppure in quel mondo deve vivere. Il testo è tutto un “brulichio”, un “formicaio”, un “verminaio”: il poeta guarda dall’alto il feroce sopravvivere di chi sta in basso. E ne soffre.

Abbiamo nostalgia di quella Roma là? Era davvero più “pura” quella vita di stenti? Era bella quella miseria che spingeva a sognare un maglione azzurro, come avviene in uno degli episodi? Non credo che, in questa operazione, sia sottesa una nostalgia, né tantomeno una apologia: del “come eravamo” si può anche morire. E se pure il clima è quello di uno sguardo all’indietro – con quei siparietti canori, Claudio Villa di Zoccoletti in testa – lo spaccato sociale e culturale della Roma anni Cinquanta non si fa certo rimpiangere.

Lo spettacolo è strutturato per numeri e si rivela, nel lungo respiro, un po’ meccanico: è un susseguirsi di quadri, o episodi, intervallati dal narratore che introduce o commenta i personaggi (posso pensare che sicuramente questa gabbia si stia già sciogliendo, dopo il debutto, nel corso delle repliche).

Ecco lo stabilimento sul Tevere del Ciriola, il borseggio sul tram, l’avventura finita in un incidente dei quattro teppistelli, il cinema con I Peccati di Roma, la gita a Ostia… Sono stazioni brechtiane o di un’anomala e laicissima via crucis. Quando poi si arriva all’epilogo, ossia al momento tragico della morte nel fiume di Genesio, uno dei tanti ragazzini, si compone una coralità istruttoria, processuale, di un tribunale fittizio fatto dalla gente, muta testimone delle proprie disgrazie, con il narratore che si erge a pubblico ministero, o questurino, o giornalista che lucidamente svela la dolente apatia di quel mondo di fronte alla “disgrazia”. Ma, come dice uno dei protagonisti: “non ce ne frega un cazzo dei vivi, figuriamoci dei morti”.

E quell’indifferenza cinica, di una realtà pronta a tutto, appare non scalfibile, immutabile, amaramente già corrotta dalla legge di natura. Si muore, al centro o in periferia, e tutto continua senza commozione condivisibile: meglio ridere, per un li mortacci o un afijodenamignotta che non piangere di un pathos che non c’è.

Al centro nella foto: Gianpiero Cicciò
Al centro nella foto: Gianpiero Cicciò

Nel numeroso gruppo di interpreti, tutti da apprezzare, spiccano il citato Guanciale (un attore che ha saputo farsi le ossa in anni di lavoro ovunque e, ora che pure gli sorride il successo Tv, tiene fede alla sua seria professionalità); poi il Riccetto di Lorenzo Grilli, Agnolo di Josafat Vagni e, notevole come Genesio o Er Fusajaro, è Alberto Onofrietti. Si fa apprezzare Sonia Barbadoro nell’episodio del cinema ed è bravissimo Giampiero Cicciò nel ruolo del Froscio, sospeso tra un quasi straniamento brechtiano e una commovente adesione tragica.

Ma tutti hanno ben figurato, e li voglio citare: Flavio Francucci, Francesco Giordano, Roberta Crivelli, Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Lorenzo Parrotto, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella e Andrea Volpetti.

Le scene, funzionali e semplici, di Marco Rossi, i costumi di Gianluca Sbicca e le lucid di Luigi Biondi (con i video di Luca Brinchi e Daniele Spanò) completano questo affresco.

La prima, interrotta da una scossa di terremoto che ha funestato gli animi, ha raccolto grandi applausi. Ed è bello notare che – come sta avvenendo in altri teatri importanti – le aperture di stagione siano all’insegna di un respiro nuovo e diverso. Abbiamo scritto di Binasco e Dini a Genova; abbiamo nel frattempo visto Arturo Cirillo a Napoli (ve lo racconterò); è in scena Emma Dante a Palermo e ora Massimo Popolizio a Roma (e mettiamoci pure Servillo e Sangati al Piccolo di Milano…).

Fateci caso: in una sorta di “nuovo capocomicato”, sono tutti attori che si fanno registi e che dirigono attori giovani e giovanissimi, ma ugualmente di livello. E su questo avremo tempo per ragionare. Ma consentitemelo: per chi, come me, ha avuto la fortuna di seguire molti di questi “nuovi maestri” sin dai primi passi o quasi (mentre altri si sperticavano in lodi per un teatro immaginifico o iperconcettuale) è una bellissima soddisfazione.

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