Teatro
Una risata ci salverà?
La satira ha sempre la scelta di essere comica, umoristica o sarcastica. Il problema della sua accettabilità comincia quando il sarcasmo diventa il tratto prevalente.
Tra venerdì 28 e domenica 30 giugno il festival di satira Satira, che peccato!, promosso da Fondazione Feltrinelli, curato da Beppe Cottafavi, sarà un’ottima occasione per misurare non solo quanto e se si ride, ma quanto spazio ha oggi più che la critica al potere, il graffio all’autorità. Con la satira non si scherza più è stato scritto. Vero.
Nel programma (leggilo qui) on mancheranno né il lato comico, né quello umoristico, ma quello prevalente sarà sicuramente quello sarcastico.
È importante capire perché. Certo si ride, sia con la comicità sia con l’ironia, sia con il sarcasmo. Ma il riso è diverso.
Perché? Per distinguere ci possono essere di aiuto due autori classici: da una parte Luigi Pirandello per i due profili comico e umoristico; dall’altra Antonio Gramsci per il sarcasmo.
Nel saggio L’umorismo (1908) Pirandello distingue tra comicità e umorismo.
Comicità si ha quando c’è l’avvertimento del contrario, un contrasto tra la nostra aspettativa e quello che accade nella narrazione.
L’umorismo è come una forma di “autoironia” in cui le persone riflettono su se stesse, prendendosi in giro, con un distacco critico costruttivo. Pirandello era convinto che i risultati dell’umorismo fossero profonde riflessioni filosofiche che sopravvivevano alle interpretazioni temporanee o all’effetto di divertimento di un certo periodo.
L’ultimo capitolo de L’umorismo è dedicato alla ricerca di una definizione dell’umorismo. Pirandello ne individua la caratteristica principale nella contraddizione fondamentale che ha origine nel disaccordo tra la vita reale e l’ideale umano, tra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze, che ha come effetto la perplessità tra il pianto e il riso, lo scetticismo di ogni pittura umoristica e il suo procedere minuziosamente analitico.
Ne consegue che comicità e l’umorismo vanno in direzioni diverse: Il fine della comunicazione comica è il riso e il divertimento. L’umorista, invece, riflette su quanto ha visto e “fa vedere” e più che ridere a crepapelle e invitare a ridere, sorride di ciò che vede. L’intento dell’umorista, attraverso il gesto, la parola, o il disegno, non è quello di ferire il soggetto della comicità o dell’umorismo: l’obiettivo è quello di ridere con gli altri e mai alle loro spese. Un esempio storico nelle strisce italiane è quello di Jacovitti, che trasferisce sulla carta e nelle vignette e nelle caricature lo stesso sguardo bonario, comunque con contronarrativo che Dino Risi descrive nel suo I mostri, (indimenticabile l’episodio La raccomandazione con un grandissimo Vittorio Gassman) il film che forse con maggiore efficacia ha descritto i vizi, le amarezze, le contraddizioni dell’Italiano, avrebbe detto Giulio Bollati, ma senza chiederne o sollecitare una trasformazione, lasciandolo esattamente così com’è.
È qui che entra in scena il sarcasmo.
Scrive Gramsci (Quaderni del carcere, quaderno 26, § 5, p. 2300) che nella comunicazione politica l’ironia esprime una “forma di distacco, connessa con lo scetticismo, dovuto a stanchezza, disillusione o «superomismo». Se, invece, la comunicazione vuole essere politica, vuole lavorare per promuovere azione, non può non essere «sarcasmo appassionato».
Alla base del sarcasmo, non starebbe il dileggio dell’avversario, ma la «messa a nudo» delle contraddizioni del suo pensare, dei suoi luoghi comuni. Per renderli evidenti si tratta di sviluppare il profilo di una convinzione e mostrare dove non funziona e cosa tace. Ovvero l’operazione del sarcasmo è smontare la convinzione e mostrarne le debolezze, i silenzi, i temi che evita, le questioni che non affronta. In breve, il sarcasmo non è ridere, ma è in alcuni casi anche ridendo, mostrare dove un modo di pensare è fallace, o silente.
Questo dice Gramsci è il sarcasmo di chi vuole progresso.
Ma il sarcasmo è anche un’arma di chi vuole mantenere le cose come sono, di chi propone nuovi privilegi, o fa una politica volta a confermare e a allargare le disuguaglianze. Lo chiama un «sarcasmo di destra».
Una modalità di comunicazione e di argomentazione, che ha per fine “distruggere proprio il contenuto delle aspirazioni. E osserva: il suo obiettivo dichiarato non è andare «a testa bassa» contro le masse popolari ma colpire quelli che considera i rappresentanti del pensiero avversario. Gli intellettuali, dunque. Perché se vinti quelli, allora il gioco di esercitare egemonia si fa più semplice.
Per questo quando si attacca il sarcasmo come arma occorre distinguere tra il suo scopo meramente distruttivo, “negativo” e, invece, il suo fine educativo, di arricchimento, negli strumenti, nello scavo intorno alle cose di cui si parla, nell’arricchimento che produce.
Se, il fine è solo la negazione allora all’orizzonte si profila un pensiero totalitario. Ovvero l’offerta è «comprare il pacchetto» già costruito che si offre alla massa ora «nuda» e «smarrita» come ancòra di salvezza, come invito alla tutela e alla protezione. L’esatto contrario del processo di liberazione e di autonomia.
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