Teatro
Una recensione scritta prima che chiudessero i teatri
Fa strano, in questi tempi di emergenza continua da Coronavirus, provare a scrivere una recensione. Sembra un anacronismo, una faccenda inutile. Recensire vuol dire avere il tempo per riflettere, per concentrarsi sulle forme e le anime di uno spettacolo, provare a renderne conto. Oggi, con i teatri chiusi, con la crisi economica che attanaglia il settore, con tanti artisti chiusi in casa e impossibilitati a lavorare, sembra quasi non si possa parlare d’altro che non dei crescenti problemi. Certo è indispensabile, fondamentale, seguire la cronaca e la politica, essere là dove accadono le cose, ma si tratta di mantenere lucidità di pensiero, di marcare una distanza, ancorché minima, dalla frenesia del contemporaneo per conservare quel poco di pensiero critico che tutti e ciascuno dovremmo tenere vivo.
Allora, nei giorni passati, ho visto tre lavori, e penso sia bello raccontarli. Spettacoli diversi per struttura e dinamiche, ma uniti da un unico obiettivo: mettere sul tavolo autoptico quel che resta di relazioni consunte tra padri, madri e figli. Non tanto la “famiglia” che pure, dagli Atridi in poi, ha dato da pensare, quanto proprio la questione del ruolo, delle responsabilità, dei legami – viscerali, culturali – tra singoli genitori e prole.
Chi vi scrive è consapevole del suo essere maschio, bianco, eterosessuale, piccoloborghese e padre (separato e risposato): dunque di avere a mio carico indizi di colpevolezza sufficienti a collocarmi nel novero dei possibili portatori di stereotipi e pregiudizi sulla paternità. Ma tant’è: questa è la prospettiva, per quanto discutibile, con cui mi sono posto davanti a quei lavori che mi hanno chiamato in causa, emotivamente, a più e diversi livelli.
Il primo spettacolo visto, in ordine rigorosamente cronologico, è Tebas Land, passato allo Spazio Diamante di Roma. Testo del franco-uruguayano Sergio Blanco, compatta e efficace regia di Angelo Savelli, produzione Pupi&Fresedde di Rifredi, e due attori che giocano su molteplici piani. Il testo è intrigante (anche premiato all’Ubu, edito da Cue Press), forse non proprio un capolavoro, ma certo affascinante perché mescola tre diversi piani narrativi: il primo è il dialogo diretto con il pubblico – ma nulla è improvvisato – ovvero il racconto; il secondo è la storia narrata; il terzo è la messa in prova teatrale di quella stessa storia.
L’attore-autore (l’ottimo Ciro Masella) sorta di portavoce di Blanco stesso, svela al pubblico di aver voluto fare uno spettacolo sul parricidio, ma per farlo bene, voleva portare in scena un vero parricida. Dunque (ci) racconta l’incontro in carcere con il giovane (il versatile Samuele Picchi), e poi la creazione di uno spettacolo, la messa in scena del testo che va componendo dopo e durante gli incontri con l’assassino. Va da sé che i piani si mescolano intelligentemente, anche perché sarà lo stesso interprete a vestire i panni del parricida e dell’attore che dovrà “tradurlo” in scena.
Ma è la narrazione stessa a svelare – come una matrioska drammaturgica – aspetti reconditi, sempre più profondi e più umani, la crescita reciproca dei due personaggi, la consapevolezza e infine l’agnizione di vite diverse che per un istante, grazie al teatro, si intrecciano e si legano.
Nel playground del carcere, circondato da sbarre alte tre metri, il giovane Martino pian piano si apre e ricorda: il padre violento, la madre amata, le difficoltà, la prostituzione, la reazione, l’omicidio. E l’altro, il teatrante, scopre una umanità sorprendente, capisce certo più di quel che pensava dando valore ulteriore al suo lavoro.
Blanco dice tutto, fa tutto, pecca un po’ di ingordigia e didascalismo, ma lo spettacolo tiene, e avvince. Sono bravi Ciro Masella, che istrioneggia, gigioneggia e poi regala momenti di dolente consapevolezza; e Samuele Picchi, vittima e carnefice, attore e personaggio, ingenuo e ambiguo, a passare da un mondo all’altro, dalla sala prove alla prigione, dalla finzione alla presupposta (o inventata) realtà.
Dallo Spazio Diamante al Teatro Torlonia, per la stagione del Teatro di Roma.
Da padri a madri: anzi alla Madre, a partire dalla “beata vergine”, la madre assoluta, canone e modello di maternità santa. Luisa Merloni firma Farsi fuori, un testo brillantissimo, divertente, caustico, sull’ossessione della maternità e sul (flebile, faticoso) tentativo di poter vivere superando quella “sacra missione” della riproduzione, quel cosiddetto “orologio biologico”, quel “senso materno” che tutte dovrebbero avere. Merloni, affiancata dal sempre geniale e scanzonato Marco Quaglia qui in veste di Arcangelo Gabry, mette in scena questa parabola (è il caso di dirlo) che parte da una surreale Annunciazione per scodellare in scena tutte le contraddizioni di una quarantenne che fa i conti con se stessa. È obbligatorio essere madri? Anche no, risponde sardonica Merloni, e lo mostra affrescando una serie di quadri di vita, che sono scene da una maternità speciale e al tempo stesso universale.
Il rapporto di coppia, la responsabilità, l’obbligo di scegliere tra il lavoro e i figli, la mancanza di tutele, il sovraccarico d’affetto di una madre onnipresente e ossessiva che non esita a ricordare alla figlia di fare figli, ma a sua volta in crisi, gli amori impossibili, le ansie. Sono situazioni esilaranti, a tratti commoventi, certo spudoratamente credibili, reali, in questa Roma, in questa Italia, in questo tempo. Farsi fuori pecca di una regia un po’ troppo lasca (della stessa Merloni), con qualche scivolone strutturale, specie nel finale, subito compensato però dalla freschezza scenica dei due interpreti e dalla innegabile, inesorabile, amara verità del racconto. Si ride, e molto, di fronte alle micro-vicende di “una come tante”, di una che preferisce “farsi fuori”, piuttosto che accettare, passivamente, un ruolo non voluto.
A seguire, sempre al Torlonia, ecco il Monologo della Buona Madre, testo e impeccabile interpretazione di Lea Barletti, regia di Werner Waas, artista che è stato tra i maggiori protagonisti della scena underground romana e italiana degli anni Novanta, con il gruppo Quellicherestano e che oggi ha trovato la propria sede a Berlino, nella natia Germania. Barletti/Waas è oggi un sodalizio umano e artistico che sta inanellando una serie di lavori di grande qualità e straordinaria intensità. Ricordo il bellissimo Autodiffamazione, testo di Peter Handke, che i due hanno riportato felicemente sotto i riflettori sia in italiano che in tedesco. Con Il Monologo della Buona Madre c’è un passo diverso, forse più intimo, essendo il testo frutto della scrittura raffinata di Lea Barletti (che si era già segnalata con una bellissima raccolta di racconti: il Libro dei dispersi e dei ritornati, musicaos editore) e che sembra giocare su un autobiografismo non sappiamo quanto autentico, ma sicuramente e ariosamente “generazionale”, e ampiamente condiviso e condivisibile per quelle donne che sono madri.
Seduta, statuaria, su un alto scranno, il volto imbiancato, il vestito completamente nero, Lea-Madre, fragile e potentissima, prende vita al ritmo regolare di un battito, di un beat, di un carillon esistenziale che schiude la narrazione. Lentamente si anima, e inizia a raccontarsi, lasciando libertà solo alle mani. Il racconto è confessione, è ricostruzione, è dettaglio umano e esistenziale: è la storia di una donna che voleva essere una “buona madre”. È dunque il dolore che si fa carne e voce, è quel cercare la precisione lessicale (questa sì, cara a Handke) di momenti, situazioni, in cui l’essere madre è messo alla prova, è un divenire continuo per fallimenti, approssimazioni successive, per un senso di responsabilità nei confronti di un ruolo in cui non si è mai preparati. Lea Barletti tiene salda una freddezza che solo a tratti si apre, si schiude direi, in grida o gesti appena più ampi. E sa giocare anche, con la presentazione di Lui, dell’uomo, del “padre” (chiamando in causa lo stesso Waas che la raggiunge lasciando la console), o con le proprie capacità e incapacità: so fare i dolci, ma non il pan di spagna. E diversamente dalla visione di Merloni, questa buona madre decide di “essere tutto”: artista, genitrice, musicista, donna. Lavoro rigoroso, con squarci di luce che moltiplicano l’immagine della donna in infinite ombre; con una musica che asseconda, commenta, smentisce il racconto; con quel corpo, piazzato sull’altare della vita, che sa dire verità inascoltabili. Bellissimo.
Padri, madri, spiriti santi, spiriti stanchi, ruoli consunti, compiti ingrati. Non è facile, neanche un po’, affrontare i nodi irrisolti della “Sacra famiglia” nel bigotto, reazionario e confessionale BelPaese. “Tengo famiglia”, si dice: ma vai a capire cosa c’è dietro…
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