Teatro
Un quartetto d’acciaio chiamato Mitipretese
Immaginate un quartetto d’archi, uno dei migliori. Scintillante, compatto, sensibile. Capace di volare su qualsiasi repertorio: dal barocco all’ipercontemporaneo. Spazia nel canone classico con intensità e pathos trattenuto, e altrettanto agilmente si affila aguzzo negli stridii concettuali del presente. Immaginatelo poi, questo quartetto di solisti, composto solo da donne. Quattro bellissime e straordinariamente brave donne. Non sareste pronti a spellarvi le mani in applausi? Le vedi in scena perfettamente accordate tra loro, suadenti e morbide, taglienti e feroci, perfettamente sincronizzate nel far sentire la voce dell’una o dell’altra oppure, armoniose e avvolgenti, nel far musica assieme come pochi.
Ebbene, questo quartetto esiste, ma non è musicale: fa teatro, e si chiama Mitipretese. Mitipretese è un gruppo, anomalo per sua natura, costituito come è da quattro soliste che, per l’appunto, non rinunciano alle carriere individuali in diversi spettacoli, ma hanno intrecciato i propri percorsi costituendosi in “compagnia”.
A quanto pare, però, questa loro specificità non è un sovrappiù di merito, quanto una inattesa aggravante: dovrebbero essere in cartellone in ogni teatro, vista la qualità della loro proposta, e invece Mitipretese non ha – mi assumo la responsabilità di quel che dico – adeguato e dovuto riconoscimento.
Forse perché sono donne? Nel paese così orgogliosamente improntato al “celodursimo” leghista, al machismo, all’uomo solo al comando, è facile dire che un gruppo solo femminile possa venire preso poco, o mai, sul serio.
Il quartetto è composto da Manuela Mandracchia, Alvia Reale, MAriangeles Torres e Sandra Toffolatti e si fece notare, ormai dieci anni fa, debuttando con una originale trasposizione teatrale di un lavoro di Elio Petri, Roma ore 11. Fu un successo, naturalmente, e ci si sarebbe aspettato che di lì a breve, il gruppo avrebbe spiccato il volo. Invece, in dieci anni Mitipretese ha realizzato solo tre spettacoli: tanti? Pochi?
Forse non abbastanza: le carriere soliste, certo, gli altri impegni hanno inciso, ma mi viene il dubbio che anche lo strutturato maschilismo della nostra scena non abbia favorito la crescita della compagnia.
A compensare, in parte, tanta distrazione, ha provveduto il Teatro Vascello di Roma che ha ospitato una “retrospettiva” della compagnia. Spettacoli affollatissimi, file al botteghino: il passaparola evidentemente ha funzionato decretando il successo della proposta. Tre spettacoli allineati, uno dopo l’altro: a partire proprio da Roma ore 11, passando per Troiane/Frammenti di Tragedia, da Euripide, per finire con Festa di Famiglia, florilegio pirandelliano scritto nientemeno che da Andrea Camilleri (ma possibile che il teatro italiano lo frequenti cosi poco? Dopo tutto quel che Camilleri ha fatto per il teatro?).
E proprio quest’ultimo è forse il fiore all’occhiello del percorso (concettuale e artistico) di Mitipretese. L’ho visto con grande piacere.
Nell’occasione, al quartetto si uniscono due attori, Fabio Cocifoglia e Diego Ribon, bravi assai, nel confrontarsi alla pari con le nostre “valchirie” della scena.
La storia è un gioco metateatrale, di stampo per l’appunto pirandelliano, un entrare e uscire da sequenze tratte (o evocative di) testi ben noti del Nobel agrigentino. Un mélange sapiente, che allude e illude, che stride nei suoi accenti più aspri, morbosi, addirittura violenti. Al centro sono i rapporti umani, va da sé, gli amori non riusciti, i desideri infranti: la famiglia, appunto, còlta in un “Festen” – Pirandello non è poi lontano dal film di Vintenberg del 1998 – che si fa massacro, carneficina sentimentale, disperato tentativo di sopravvivenza nelle dinamiche distruttive di legami senza via d’uscita tra marito e mogli o madre e figlie. Violenze domestiche, si dice oggi: e il clima cupo che tutto e tutti avvolge non si dissipa con le canzoni, con quelle canzonette cantate a squarciagola che solo per un istante consolano dai patimenti. Nell’incastro delle vicende personali e familiari, c’è tempo anche per improvvise e funzionali rotture della quarta parete: la gag di un cellulare, che suona (artatamente) proprio in un momento di pathos è uno squarcio quasi di sollievo. Così è, se vi va. E quella borghesia fraudolenta, in quel teatro tutto d’interni borghesucci raccontato da Pirandello, torna in vita come non mai: nel torbido delle pulsioni e delle tensioni di questi personaggi c’è il crinale, la denuncia che svela, l’amara costatazione di vite perse a combattere se stessi.
Il clima dello spettacolo – così calibrato, collettivo, così intelligentemente composto in scena da tutti gli interpreti – avvolge lo spettatore in un velo umido, soffocante, che è l’amara costatazione della realtà. E la penna acida di Pirandello, resa ancora più viva dall’umanissima sapienza di un gigante quale Andrea Camilleri, porta il pubblico a una empatia sincera, a un rispecchiamento dolente, a una commozione per loro, là in scena, e per noi, povere macchiette di storie mai scritte.
Festeggiamole ancora, dunque, queste famiglie spaccate e indissolubili, queste madri sempre presenti, questi mariti cialtroni, queste donne fortissime e fragili. E festeggiamo questo teatro, antico e nuovo: le Mitipretese, semplicemente, danno la scena alla vita. La “musica teatrale” di questo quartetto di soliste è tutta qui. Serve poco altro per fare, bene, teatro.
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