Teatro
Un piccolo circo di grandi meraviglie apre la Biennale Teatro
Bisogna andare in quella wasteland che a Venezia chiamano Terraferma per vedere il primo spettacolo della Biennale Teatro 2016 diretta da Alex Rigola. Prendere l’autobus, camminare oltre il palazzone fantascientifico del Vega e svoltare attorno il moloch ipercontemporaneo dell’Expo, per scoprire, piccolo e curioso, lo chapitau del Baro d’Evil Cirk: un circo, con le sue roulotte attorno, cui fanno da anomalo sfondo le navi ormeggiate alla darsena.
È un anacronismo, un tuffo in una realtà altra, magica.
Baro d’Evel, giovane compagnia franco-catalana, guidata da Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias, ha applicato i propri codici di ricerca all’antica arte circense, si è dotata del tendone e, con due meravigliosi cavalli, tre pappagalli e una gazza è partita nella lunga e lenta tournée che fa tappa, per la prima volta, in Italia.
Bestias, questo il titolo dello spettacolo, è bellissimo. Voglio dirlo subito: nella sua semplicità, nel suo giocoso candore, nella sua trascinante poeticità è una piccola, grande magia.
Si entra da una specie di labirinto composto da veli bianchi, animati da disegni e immagini, dell’illustratore Bonnefrite, che non sarebbero dispiaciuti a Keith Haring: seguendo una “guida” improvvisata, il pubblico arriva finalmente alla pista, che è piccola, accogliente.
Si prende posto, grandi e piccini, e subito entra, disinvolto, un cavallo. Sta lì, fermo, al limitare della pista. Si mordicchia, aspetta. Sembra si guardi intorno. Infine attraversa la pista e se ne va dall’altra parte. Poi è la volta di un uomo, due, una donna, una bambina: passano, corrono, si salutano, entrano, escono. Passa una gazza in volo, nessuno la disturba.
Prende vita così, con un pretesto drammaturgico che è più coreografico che non narrativo, lo spettacolo di Baro d’Evel: e quando arriva la parola, infine, è per dire che «tutto succede qui», in un hic e nunc che è il tempo sospeso ed eterno del gioco. In questo circo non c’è sfoggio di virtuosismo, tutto anzi è proposto in modo delicato, coinvolgente, celando quasi l’eccellente capacità dei protagonisti.
La struttura è sempre per numeri, o per attrazioni, ma come dice uno degli interpreti «è per gioco, per ridere», demistificando con sapiente leggerezza la precisione, la sapienza, la maestria. Con la levigatezza ingenua e seria di bimbi impegnati in una fantasia, i performer-danzatori-circensi-musicisti di Baro d’Evel danno vita a una festa che è gioco collettivo, coinvolgente, commovente. E vale la pena citarli tutti: con i due fondatori del gruppo sono in scena Ali Ayguade, Noëmie Bouissou, Taïs Mateu Decourtye, Julian Sicard, Piero Steiner e Marti Soler Gimbernat .
Sono bravi, in tutto: si arrampicano sui piloni della struttura e, anziché far i trapezisti, su piccole piattaforme attrezzate con percussioni, suonano e cantano pezzi originali degni dei primi Velvet Underground. Poi, se devono saltare giù, ne fanno un numero originale, di comicità insistita e leggerezza meravigliosa, con il pubblico, gli occhi in su come per ogni circo che si rispetti, incantato e emozionato. Oppure ancora danzano in piccole coreografie trascinanti dal sapore bauschiano, realizzate in collaborazione con Maria Muñoz e Pep Ramis (della compagnia Mal Pelo).
È dunque un circo antico e modernissimo quello cui abbiamo assistito: con gli animali, certo – che sono parte integrante del tessuto coreografico, che “cantano” e danzano assieme agli altri protagonisti. Cavalli che corrono dietro, in un corridoio alle spalle del pubblico, con un effetto sonoro di coinvolgimento mai avvertito prima; pappagalli che giocano con una stralunata danzatrice; la gazza dispettosa che ruba la penna a un improvvisato relatore-clown, interrompendogli un discorso per il quale “essere umani è passato di moda”…
Gli animali sono “ammaestrati”, senza dubbio, e potrebbero far inorridire i soliti animalisti di professione. Qua, però, si avverte una complicità, un vivere comune dell’esperienza scenica che è simbiosi, scambio, ascolto e condivisione. Le bestie del titolo, insomma, stanno da protagonisti in quel gioco di cui si diceva. E alla fine sono gli umani a farsi animali: indossando strane maschere da fenicotteri, o covoni di paglia che li trasformano in creature primordiali.
C’è un’atmosfera sospesa, allegra, per questa festa di circo e di teatro, che al fondo svela un duplice messaggio: un bisogno fanciullo d’amore, di gioia sincera, di abbracci e baci che danno senso alla vita. E poi, rarefatta nell’aria, resta l’ultima battuta, quando la bambina chiede al clown: «è qui il tuo nascondiglio?», e lui, stringendosi addosso la paglia che ha invaso la pista, lentamente, timidamente annuisce. Forse, sembra dire Baro d’Evel, è meglio continuare a giocare, a sognare, a amare. Oggi più che mai.
Bestias è in scena ancora stasera e domani.
NB: sto collaborando con La Biennale di Venezia. Come ogni anno, da tanti anni, faccio un laboratorio di critica e curo gli incontri con gli artisti. Per correttezza non dovrei recensire gli spettacoli del Festival. Ma mi sarebbe davvero dispiaciuto non raccontarvi questo circo…
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