Teatro
Un intimo Anton Cechov per Alex Rigola
Non so, sarà la pioggia di questa primavera solo apparente; saranno i lampi cupi delle elezioni europee che tingono di nero il Continente e l’Italia, ma per quel che mi riguarda torno a Cechov come tornassi a casa, cercando il calore di un focolare protetto, dove ritrovare una umanità riconoscibile, complessa certo ma non violenta. Un’umanità piccola, marginale, lontana e vicinissima, travolta dalla grande Storia proprio come noi, qua, ci troviamo impreparati, addirittura sorpresi, di fronte al ritorno di mostri che ritenevamo – erroneamente e superficialmente – da tempo sconfitti: il fascismo, il razzismo, il machismo, l’arroganza, la violenza…
Anton Cechov guardava con ironica empatia quelle sue creaturine: ne sapeva pregi (pochi) e difetti (tanti), ne capiva sogni e frustrazioni, ne condivideva amori e patimenti, eppure sapeva insufflare nei suoi personaggi l’alito lieve di un candore splendente, vero, solidale. Era un mondo ancora a misura d’uomo, di vita e di morte, anche ambientalista ante litteram, che pure si stringe a se stesso proprio per non crollare sotto i colpi di tutto quel che c’è là fuori: il progresso che va in direzione opposta da quella sperata, con le illusioni, i valori, che cadono uno a uno.
Allora, assume doppia forza l’allestimento di Zio Vanja firmato dal regista catalano Alex Rigola per lo Stabile del Veneto. A Padova, all’interno del museo del Centro Culturale San Gaetano, Rigola monta una “scatola” di legno chiaro, uno spazio claustrofobico a cielo aperto, con quattro rampe di gradinata per il pubblico e uno stretto corridoio per gli attori, stretti, “spalle al muro” di questa “casa” spoglia, concreta e astratta al tempo stesso (la scena è di Max Glaenzel).
Lì dentro, come un gioco lieve, si libra Vanja, scene di vita da Anton Cechov, adattamento e riduzione dell’originale dello stesso Alex Rigola con ottima traduzione dallo spagnolo di Davide Carnevali. E dunque questa collocazione da Teatrino Anatomico è il primo elemento che rende decisamente particolare questo allestimento: un alberello bonsai, alcuni post-it, un cellulare per suonare un paio di musichette lontane lontane o per fare i calcoli sul finale. Tutto e tutti in quella scatola di legno (e i segni, i nodi del legno diventeranno, con efficace soluzione, la mappa del territorio cara a Astrov) che è il contenitore emotivo, la gabbia sentimentale in cui sono serrati i personaggi, senza vie di scampo, appoggi, soluzioni. Chiusi lì dentro, assieme agli spettatori, giocano alla loro storia.
Ecco, infatti, il secondo elemento chiave: il gioco. Sono attori che “giocano a Cechov”, che giocano i personaggi – così dichiara la locandina –, li sostituiscono recitandoli. Michele Maccagno, Antonietta Bello, Ruben Rigillo e Angelica Leo sono i protagonisti: e non ci sono più Vanja o Helena, ma proprio Michele o Antonietta, che si chiamano per nome (effetto un po’ insistito che rischia di diventare stucchevole) e assumono su di loro il dramma ridotto all’essenzialità. Sono come un quartetto d’archi – magari tenore Maccagno, soprano la Leo, baritono Rigillo e contralto la Bello – che si intonano su una recitazione trattenutissima, minimale, super essenziale.
Ed è qui il terzo fattore di interesse dell’allestimento: il tono. Il regista imposta il lavoro con un approccio rigorosissimo, e gli attori fanno sapientemente propria quella tensione così intima, introiettandola. Uno stile che non è “sussurrato”, tanto meno il minimal-biascicato-quotidiano che “fa tanto verità”; non è “Strasberg” o psicodramma, e neppure semplicistico “dire”. Non è quel rigoroso approccio appena dubitativo cui ci hanno abituato, che so, Deflorian/Tagliarini né le scientifiche e analitiche interpretazioni degli attori di Massimiliano Civica, cui pure potrebbe far pensare. No, qui abbiamo un bel lavoro fisico (e dunque vocale) di contenimento, un modulare in sottrazione, un controllo della recitazione affascinante: sono “loro” – ovvero Michele, Antonietta, Ruben, Angelica – eppure recitano “loro”, ossia Vanja, Helena, Astrov, Sonja…
E, tra attore e personaggio, gli occhi brillano di vita e di languore. Così può tornare Cechov, con le sue parole, il suo sguardo, il suo cuore. La sua maledetta, straziante genialità. Seppure ridotto all’osso, risuona ancora: «gli ideali di per sé non sono nulla, bisogna darsi da fare».
Dal punto di vista drammaturgico c’è uno “snodo” che, almeno a me, è apparso un po’ forzato: l’assenza del vecchio professore Serebriakov viene aggirata con una lettera (è la famosa battuta in cui chiede di vendere la tenuta) e la legittima ira di Vanja si scatena, qui, non contro l’uomo, ma contro Helena che legge la lettera stessa. Rispetto all’originale mi sembra uno slittamento eccessivo, ma nel contesto dello spettacolo può andare e anzi dà un sussulto forte al clima soffuso.
Anche perché sono assai bravi, bravissimi, i quattro interpreti, a camminare su quella corda tesa, a tenere sospesa la tensione senza fare (apparentemente) nulla. E difatti lo spettacolo coinvolge senza commuovere: non c’è spazio per il facile sentimentalismo, anzi. In quel rigore, tutto è freddo, mascherato appena da qualche sorriso che dietro il candore svela il dolore.
Cantano con un filo di voce i Rem di Everybody Hurts o si confrontano senza pietà: «eravamo uomini intelligenti, due brave persone, ma la vita..». Il colpo di pistola non ci sarà: Vanja-Michele colpisce con forza la parete di legno, il tonfo rimbomba nello spazio vuoto del museo come quei tuoni lontani che marcano questa primavera fredda. Fuori, il temporale, l’umido nelle ossa. Si ripiomba nel silenzio, aspettando il futuro.
Lo spettacolo è in scena fino al 9 giugno. Per info: teatrostabileveneto.it
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