Teatro

Un gioiello al Festival Vie di Modena

17 Ottobre 2017

Colpisce per nitore, violenza, asciuttezza, febbrile forza il nuovo spettacolo di Theodoros  Terzopoulos visto al sontuoso e articolato Festival Vie di Modena e Bologna, promosso e organizzato da Ert Emilia Romagna Teatro, diretto da Claudio Longhi.

Da tempo, il grande maestro greco ha trovato nella città emiliana un suo “teatro d’adozione”: lo scorso anno vedemmo il fantastico Amor, ma già nel 2013 il Nazionale emiliano aveva ospitato Alarme, il primo capitolo della destabilizzante trilogia che si conclude ora con Encore. Encore, dunque, ancora: una coppia – di nuovo una coppia, uomo e donna – a giocarsi a fil di spada la propria esistenza, il proprio stare al mondo.

La scena scarna è una croce ampia, o forse due pedane da scherma incrociate, che terminano in un vertice con una specie di cappella funebre, una sorta di loculo verticale, aperto sul fronte, dove i due andranno a rintanarsi.

Foto di Johanna Weber

Sono due attori eccezionali: Sophia Hill e Antonis Myriagkos. La coppia in scena si fronteggia, si studia, si mangia, si lecca, si succhia, guaisce, ringhia, ulula: animalità invadenti e sonorità suadenti si impongono dopo un canto lirico affidato alla voce femminile (non l’ho riconosciuto, ignoranza mia, le musiche sono di Panagiotis Velianitis, ma potrebbe essere o evocare Purcell)

I corpi si avvinghiano, si intrecciano, si toccano, ma sempre sotto minaccia delle affilate lame. Due coltelli ciascuno, a segnare un impossibile amplesso, a tenere alta la guardia, a mettere a rischio di vita o di morte il confronto con l’Altro o l’Altra. L’incastro è esasperante e claustrofobico nello spazio aperto e vuoto del palcoscenico del Teatro delle Passioni. Non si fugge da quella croce in terra, al massimo la si percorre strisciando o muovendosi lentissimi. È un duello ansimante passione, sesso, erotismo: eppure non vi è nulla di caldo né, tantomeno, di osceno o pornografico. Anche perché se la metafora fisica è smaccata (ogni gesto allude o evoca la frenesia sessuale) il testo da subito va altrove. Ancora, dice lei, con voce roca e sensuale. Ancora e ancora risponde lui. Ma oggetto e soggetto del discorso non è l’amplesso, lo spasmo, l’orgasmo, è anzi la “parola”. Léxi.

La parola che sanguina, che vive, che si duplica, che inghiotte, che divora, che mastica. Tutto è parola. La parola si fa materica, è materia. È il terreno concreto, il sasso, oppure la spada che guida il duello. La parola è il discorso amoroso, è il corpo dei due performer nerovestiti: astrazione e immediata concretezza, sublimazione e descrizione. «Sangue», si sente ripetere ossessivamente. Sangue che diventa ritmo in un improbabile tango ballato a terra, le gambe dei due incrociate, avvinghiate senza scampo, ma immobili. “Aíma” in greco, è dunque la parola che risuona di più: la parola è il sangue, il sangue è la parola. Allora la sublimazione sessuale, la grande metafora, slitta e si svuota, si connota di una astrattezza spiazzante.

Foto di Johanna Weber

Nella millimetrica e totalizzante interpretazione di Hill e Myriagkos, il “teatro oltre il teatro” di Terzopoulos affida al pubblico questa astratta non-storia divertente, intensa, vibrante, che pure avvinghia e ipnotizza. Sembra non ci sia nulla, e vi è tutto. Poi, la dinamica relazionale di quelle due creature-simbolo che sono in scena, vira di nuovo per sorprenderci verso il finale quando, dopo che si erano consumate tutte le infinite possibilità del “duello” all’arma bianca che è la relazione tra esseri umani, arriva una battuta di lei che tutto nuovamente ribalta. Una frase che cambia ogni prospettiva: «per dirti la verità, caro mio, devo tornare di nuovo bambina», dice Sophia Hilla con una voce che viene dal profondo dell’anima. Potrebbero essere memorie, impervie consapevolezze, suggestioni passate, disillusioni. È una oscurità, è il nero che tutto avvolge di cui abbiamo lontana percezione e che tendiamo a fuggire. Invece, sembra dire Terzopoulos, dobbiamo affrontarlo armati di parole affilate come coltelli, impastare le nostre parole con il sangue per andare verso la verità. Tornare bambini, forse, e non aver paura del confronto con l’oscuro in sé e nell’Altro. Così svanisce, evapora questo Encore, con l’uscita di scena dei due protagonisti: lasciano la sensazione di un turbine, della caduta in un abisso, del precipitare per un’ora in un tempo e in un mondo altro che, di colpo, così come si è materializzato, scompare. Un gioiello.

Dopo lo spettacolo c’è stato tempo per presentare anche il volume Il ritorno di Dionysos, edito da Cue Press: un volume agile e prezioso che è la prima parte del “Metodo Terzopoulos”. Libro da consigliare agli attori e alle attrici, che devono confrontarsi con il proprio corpo per andare in scena: «non il corpo biografico – dice il regista – ma il corpo teatrale». Un metodo di lavoro, che poggia su solidissime basi filosofiche e esperenziali, che Terzopoulos ha elaborato nella sua lunga e ricca carriera. Illuminato da Eraclito, che fa capolino in forma di citazione ad ogni capitolo, Il ritorno di Dionysos, ottimamente tradotto dal regista e pedagogo Michalis Traitsis, è un percorso di scavo, di analisi, di tecnica assolutamente affascinante, da studiare.

 

Tanto è stato rigoroso, asciutto, affascinante Encore, altrettanto mi è sembrato retorico, rutilante, confuto il Cechov messo in scena dal gruppo irlandese Dead Centre al teatro Comunale. Per Chechov’s first play, il primo dramma di Cechov, riscritto da Ben Kidd e Bush Moukarzel, anche regista, partendo dal Platonov, ogni spettatore è dotato di cuffia per l’ascolto (non è una novità, basti pensare alla splendida Elettra che fece De Rosa, o negli anni novanta alle proposte di Teatrino Clandestino e Fanny&Alexander, o in epoche più recenti a Roger Bernat e Rimini Protokoll).

In apertura di lavoro, si presenta in proscenio Moukarzel, armato di microfono e di cechoviana pistola, che spiega le ragioni della scelta. La prospettiva è intrigante, scherzosa ma non troppo: vuole intervenire, durante la messainscena per chiarire, commentare, ragionare con gli spettatori su quel che vedranno. Vuole insomma motivare il pubblico ad apprezzare il suo spettacolo: divertente e sorniona considerazione, anche pensando a tutto quel che si fa per la formazione del pubblico, che potrebbe dar vita a un gioco, tra realtà e finzione, in cui chiamare in causa anche il ruolo e il senso della regia.

Invece. Invece poi inizia lo spettacolo, che è sì il Platonov di Cechov, ma affrontato come se fosse Oscar Wilde, interrotto dalle considerazioni fuori scena del suddetto regista, montato e smontato in con afflato irriverente ma non iconoclasta. Con un effetto che oscilla tra le dimostrazioni didascaliche e divulgative di Piero Angela o i giochini del vecchio Rumori fuori scena. La trovata, dopo poco, annoia, anche perché infarcita di luoghi comuni: l’attrice incinta, il regista che è andato a letto con l’altra, quello che non si ricorda la battuta, il copione saltato, gli attori emozionati…

Mentre si dipana questo continuo teatro nel teatro (ah Hynkfuss, dove sei?) arriva quello che dovrebbe essere l’effetto dirompente, ossia l’immedesimazione della voce-regista con il protagonista. La voce cambia, si fa roca come in un horror, un’enorme palla da demolizione distrugge un angolo della sontuosa scenografia (di Andrew Clancy), si avvertono in cuffia i rumori “della strada”, come se tutto fosse “vero”. È questo l’avvento del reale? Poi, ulteriore “colpo di scena”, a far il protagonista è chiamato uno spettatore, eterodiretto in cuffia anche lui, che muto assiste al disfacimento progressivo di scene e caratteri.

Non paghi, gli irlandesi tendono a attualizzare il povero Cechov: cocaina, sesso, telefonini, inquietudini e depressioni, maternità, flebo e inutilità, roulette russa e sangue che cola. Tanto per non farsi mancare nulla, a colmare i rari momenti di silenzio ci pensano le musiche invadenti. Bravi, simpatici e sinceri i membri del Dead Centre, non lo metto in dubbio, ma l’esito a me è sembrato francamente noioso e inutilmente faticoso. Ma forse ho sbagliato, non ho capito: il lavoro è stato apprezzato da molti amici e colleghi critici presenti in sala, e sopratutto dal preparato pubblico modenese che, ben più convinto, ha tributato un generoso e affettuoso applauso alla compagnia. 

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