Teatro
Un Cechov da svenire
C’è qualcosa di insondabile e preciso, come un mistero – o un segreto – che accompagna l’avventura creativa della Compagnia Le Belle Bandiere.
Elena Bucci e Marco Sgrosso, e con loro Gaetano Colella che li affianca in scena, portano addosso e dentro un passato, una memoria sedimentata eppure hanno la forza di guardare sempre ad un futuro che – se se anche risulta ambiguo, rischioso, spaventoso – sa volgersi in un presente vitalissimo.
Così, la sapienza scenica di questi interpreti ha il sapore antico dei guitti, degli scavalcamontagne, addirittura dei comici dell’arte: che è quel sapere, quella tecnica tutta italiana, consapevole e mostruosa, codificata da uno studioso come Marco De Marinis nella sua imprescindibile analisi, ormai di qualche anno fa, sull’attore comico del Novecento. Un sapere che si tramanda e si reinventa continuamente: deve reinventarsi, pena la sua scomparsa.
Così, Bucci e Sgrosso hanno fatto tesoro del magistero di Leo de Berardinis, con cui hanno lavorato tanto a lungo, ma l’hanno portato altrove, mantenendone però il cuore pulsante, il battito interiore. Senza formalismi, senza pedanti citazioni, hanno elaborato e trasformato quelle lezioni. Ne emerge un teatro vivo, raffinatissimo nella sua immediatezza e linearità.
Verrebbe da dire: sono bravi, punto e basta. Ossia c’è una tecnica, una consapevolezza scenica, che comunque garantisce l’incanto e l’adesione del pubblico. Niente di ché, nulla di travolgente: non ci sono effettacci o elucubrazioni sterili. Bravi attori e un buon testo, e il gioco – teatrale – è fatto: che vuoi di più? Ma vi è altro: forse quel segreto, quel non detto, quella intrigante e impalpabile sostanza che affratella, commuove quanti di noi, in platea, sono disposti a lasciarsi andare al gioco che, in questo caso, è Svenimenti.
Si tratta di un pastiche teatrale sulle orme di Cechov. Ancora lui: Anton Pavlov è il protagonista indiscusso di questa stagione teatrale. Sboccia ovunque: in forme compiute o in tagliuzzamenti, in citazioni o in filiazioni. Di fatto, Cechov sta soppiantando Shakespeare nel cuore degli attori italiani.
E il Cechov, prodotto dalla compagnia assieme al CTB di Brescia, è un gioiello di equilibrismo tra passioni, sentimenti, slanci, ritegni, pudori, goliardate, battute e sospiri. Sono svenimenti sentimentali, tenuti da un filo rosso che è lo sguardo ironico e autoironico (dell’Autore, certo, ma anche e soprattutto degli interpreti) sull’animo umano. Un vaudeville, una giostrina, allegra e spensierata che, a ogni giro di valzer, diventa sempre più struggente.
Elena Bucci – anche regista in collaborazione con Sgrosso – e i due interpreti maschili, danno vita a una drammaturgia originale che ha come fulcro le lettere di Anton Cechov, in particolare quelle a Olga Knipper, interpolate non solo da lacerti delle opere teatrali maggiori, ma soprattutto da tre atti unici dello scrittore russo.
Si tratta dei testi più noti: La domanda di matrimonio, L’Orso e Fa male il tabacco. Quest’ultimo, poi, è la cornice del racconto scenico: sdoppiata tra due “relatori”, suona come una grottesca “relazione” kafkiana, ma con un gusto ironico e amaro in più. Bucci, Sgrosso e Colella entrano ed escono dalle storie, dalle situazioni: evocano l’esistenza quotidiana di Cechov e le sue creazioni teatrali, mantengono fisse le proprie maschere comiche, declinandole in un avvolgente e vibrante ritratto umano.
Su tre palchetti da commedia dell’arte (disegnati da Stefano Perocco di Meduna), dietro siparietti candidi, ben vestiti alla moda che fu, i tre attori si riverberano nelle parole e nei personaggi cechoviani. Con ritmo a tratti indiavolato, cui si contrappunta un candido e nostalgico languore, tutti quei frammenti apparentemente sfilacciati, quelle evocazioni dalla origine la più diversa, si mutano in tessere di un mosaico più ampio, completo: di un sogno carico di tenerezza e affetto, di compassione e empatia.
Ridiamo contenti, noi spettatori, addirittura emozionati di fronte a tanta semplicità: le sappiamo, quelle storielle di Cechov, le abbiamo viste o lette mille volte, ormai le conosciamo quasi a memoria, eppure vi ritroviamo – stavolta – il piacere di un’eterna novità, di una primavera in arrivo, che si fa sentire con i suoi profumi. Non so: non so descrivere, servirebbero altre parole, e altri sguardi.
Ma quel teatro lì, effimero e eterno, quegli spettacoli antichi e d’oggi delle Belle Bandiere, a me restituiscono il senso della fatica dell’attore, della sublime creatività, del gioco e della vita polverosa del teatro. Visto al Teatro Koreja di Lecce, tappa di una lunga tournée, lo spettacolo si è meritato un’ovazione.
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